Secondo il McKinsey Global Institute report, un think tank nordamericano con focus sui processi tecnologici, l’impatto della rivoluzione tecnologia attualmente in corso avrà dimensioni analoghe a quelle della prima rivoluzione industriale di inizio Novecento. Nei prossimi 10-20 anni, robot dotati di intelligenza artificiale e software capaci di auto apprendere potrebbero distruggere il 30% del lavoro umano a livello planetario.



A seconda di come si impostano gli scenari di previsione, entro il 2030, cioè dopodomani, l’automatizzazione smantellerà tra i 400 e gli 800 milioni di posti di lavoro a livello mondiale, obbligando altri 75 milioni di lavoratori a cambiare radicalmente occupazione: “I lavori costituiti da mansioni di routine e attività ripetitive saranno particolarmente vulnerabili alla sostituzione tramite IA (Intelligenza Artificiale). A causa del calcolo costi-benefici, il cambiamento peserà inizialmente sui lavoratori con una specializzazione media, mentre le posizioni meno retribuite potranno sopravvivere più a lungo. Tuttavia, questo non significa che oggi i posti di lavoro ad alta specializzazione siano completamente protetti dal cambiamento. Molti dei compiti eseguiti da professionisti con conoscenze ed esperienze specialistiche, come i medici ad esempio, possono essere soggetti all’automazione; queste professioni potrebbero cambiare per concentrarsi maggiormente sulle interazioni personali. Molti lavori non scompariranno ma il loro mix di attività cambierà e i sistemi di istruzione e formazione dovranno saper rispondere alle nuove esigenze”.



Da questa epidemia planetaria si salveranno inizialmente i lavori più umili come operai edili, braccianti, badanti per anziani, addetti alle pulizie, e quelli più elevati o tecnici come high executives, programmatori software, ricercatori specializzati e affini. Nel primo caso, perché l’automatizzazione costerebbe di più che impiegare risorse umane, che così finirebbero per essere pagate sempre meno; nel secondo caso, perché gestiranno direttamente la rivoluzione.

Il vero massacro avverrà nel mezzo. Il middle management, quelli che un tempo venivano chiamati impiegati di concetto, il personale di amministrazione, gli operatori del customer service, gli addetti alla logistica e agli approvvigionamenti nonché le miriadi di lavoratori autonomi impegnati nei servizi alle imprese. Praticamente tutto il settore terziario così come si è sviluppato a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, che ha costituito la dorsale economica dei paesi industrializzati, sarà spazzato via dalla rivoluzione tecnologica ormai alle porte.



In Germania, l’economia industriale più avanzata d’Europa, s’incominciano a vedere le prime avvisaglie di tutto questo. L’azienda automotive tedesca Schaeffler, che rifornisce tutto il settore automobilistico, ha annunciato che taglierà 4.400 posti di lavoro entro il 2022. Continental, altro big player nel settore pneumatici, parla di 13mila posti di lavoro a rischio in Germania, mentre il produttore di autocarri Man, facente parte del gruppo VW, cancellerà 10mila posizioni lavorative in Germania e Austria. E siamo solo all’inizio.

Il coronavirus c’entra relativamente, il protagonista di questa rivoluzione epocale si chiama innovazione tecnologica. A questo proposito il quotidiano Die Welt fa notare come l’impatto della trasformazione tecnologica sulla struttura economica tedesca, ma l’osservazione vale per tutti i paesi industrializzati, sia quasi ignorato dai media tutti concentrati su coronavirus, clima e lotta al razzismo. Non solo il settore automobilistico, ma anche quello della costruzione di macchinari, altro settore cruciale dell’industria tedesca, rischia di perdere il 4% della sua forza lavoro entro la fine dell’anno, e questo nonostante gli interventi governativi anti-pandemia come la cassa integrazione speciale che sospende i licenziamenti.

A preoccupare è soprattutto il fatto che si tratti di settori ad alta specializzazione, dove le retribuzioni sono superiori rispetto ad altri comparti. La loro perdita impatterà direttamente sul potere d’acquisto dei tedeschi e quindi in ultima analisi sul benessere del paese.

L’impatto della crisi del settore automotive tedesco sul nostro paese potrebbe essere devastante. La Germania è il primo partner commerciale dell’Italia che vi indirizza mediamente il 12,5% del suo export, con punte del 24% per Lombardia e Veneto (dati Confindustria). Il sistema italiano è integrato a quello tedesco attraverso migliaia di subfornitori che operano a monte della filiera produttiva, in termini formali non direttamente esportatori quindi, ma legati comunque alle sorti della domanda di Berlino. Questo vale soprattutto per i distretti industriali del Nord Italia.

La crisi aveva battuto i primi colpi già nel 2019 in seguito al forte rallentamento dell’industria tedesca, ma l’emergenza Covid ha coperto tutto come una marea improvvisa. Ora che l’onda del coronavirus sembra ritirarsi, la crisi riemerge più forte di prima. Il fatto poi che il nostro paese, da seconda forza manufatturiera europea (anni Novanta), si sia ridotto a fare da conto lavorista per il mercato tedesco la dice lunga sul declino industriale italiano e la totale assenza di strategia e visione della classe dirigente.

Gli ottimisti osserveranno che, sebbene la rivoluzione tecnologica distruggerà posti di lavoro, ne creerà di nuovi. Osservazione ragionevole, se non fosse che, come fa notare il rapporto McKinsey, oggi i posti di lavoro che saranno creati dalla trasformazione tecnologica non sono quantificabili e nemmeno individuabili. Si possono solo ipotizzare sulla base delle esperienze passate di situazioni analoghe (la prima rivoluzione industriale). Invece i posti di lavoro che andranno perduti sono individuabili e quantificabili con precisione. Inoltre, i nuovi posti di lavoro implicheranno un aggiornamento pressoché totale delle capacità lavorative e questo non potrà avvenire in tempi rapidi.

Presumibilmente ci sarà un periodo più o meno lungo di disoccupazione di massa e se una luce ci sarà, essa brillerà alla fine del tunnel, non in mezzo. Sulla durata e soprattutto durezza del periodo di mezzo non si possono fare previsioni rosee.

Esagerazioni da romanzo distopico? Paure da vecchio uomo bianco terrorizzato dal progresso tecnologico? Forse, esiste però quantomeno la possibilità che la crisi da lockdown, per quando pesante e insidiosa, possa essere stata solo un temporale estivo in confronto a ciò che starebbe per abbattersi sulle economie dei paesi industrializzati. E forse è per questo che si preferisce parlare d’altro.