All’inizio degli anni Duemila, Javier Solana, Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune della Ue, disse chiaramente che non era più pensabile un rapporto tra la Nato e la Russia modellato sul rapporto tra la Nato e l’Unione Sovietica. Una volta terminata la Guerra fredda, era necessario identificare gli interessi comuni tra europei e russi. E visto che loro erano alla ricerca di una collocazione, bisognava creare “un sistema di sicurezza e di difesa comune fondato sugli interessi vitali di europei, russi e americani”.



Su queste basi, il 28 maggio 2002 a Pratica di Mare, nella base militare Nato, fu firmata la “Dichiarazione di Roma”, che sanciva la nascita di un Consiglio a 20 comprendente anche la Russia e che, pur ponendosi in primo luogo il compito di annientare il terrorismo internazionale (la ferita dell’11 settembre era ancora viva), era considerata propedeutica all’ingresso effettivo di Mosca nell’Alleanza atlantica.



Il 2003 segnò un cambio di passo americano. Mentre era ancora calda la stretta di mano tra Vladimir Putin e George W. Bush, gli Stati Uniti inaugurarono la strategia della “diplomazia vigorosa”, voluta da Dick Cheney: da un lato, si assecondava l’attivismo polacco con l’accelerata adesione alla Nato dei Paesi baltici (Estonia, Lettonia e Lituania) e di Bulgaria, Romania, Slovacchia e Slovenia (in base ai principi del 1995 sulle loro credenziali democratiche, sulla capacità di contribuire alla sicurezza collettiva e sul contributo che la loro adesione può apportare alla sicurezza e alla stabilità della zona euro-atlantica); dall’altro, l’invasione americana dell’Iraq con le sue tragiche conseguenze.



Per comprendere il cambio di passo americano, vale la pena ricordare che nel 1997, dopo l’adesione alla Nato di Polonia, Ungheria e Repubblica ceca, l’allora senatore Joe Biden dichiarò che “annettere alla Nato gli Stati Baltici” sarebbe l’unica mossa che rischierebbe di provocare una “riposta vigorosa e ostile” da parte della Russia. Evidentemente, Biden era preoccupato della reazione russa alla firma del 9 luglio 1997 della Commissione Nato-Ucraina (Nuc), che poi nel 2014 fu essenziale per trasformare Euromaidan in una “piazza d’armi antirussa” (definizione del 30 marzo 2022 del capo delegazione russa, Vladimir Medinsky, durante i negoziati russo-ucraini). Biden, probabilmente, era anche a conoscenza della lettera del 1993 dell’allora presidente russo Boris Eltsin che, dopo un incontro con Lech Walesa, scriveva al presidente americano Bill Clinton: pur comprendendone le ragioni, l’allargamento della Nato ad Est “avrebbe potuto portare a incomprensioni nell’opinione pubblica e all’ostilità persino di circoli moderati, che avrebbero visto in queste mosse un tentativo per condannare la Russia a un nuovo isolamento”.

Era chiaro che per rendere accettabile a Mosca l’allargamento della Nato si dovevano trovare escamotages istituzionali per mascherare l’unilateralismo americano post 11 settembre, i doppi standard adottati da Washington in materia di sovranità, diritti e legalità internazionale, e l’abbandono statunitense di alcuni dei pilastri dell’ordine internazionale, tra cui l’uscita nel 2001 dal fondamentale trattato Abm che limitava le capacità di difesa missilistica e formalizzava, anche simbolicamente, il meccanismo della deterrenza nucleare. Per queste ragioni, preso atto che l’allargamento della Nato ai paesi dell’ex Patto di Varsavia era cosa fatta, nel 2004, il presidente della Commissione europea, Romano Prodi, scriveva che l’allargamento dell’Unione Europea a 10 dei 13 Paesi candidati (Cipro, Estonia, Ungheria, Polonia, Repubblica ceca, Slovenia, Lettonia, Lituania, Malta, Slovacchia, perché Bulgaria, Romania e Turchia non soddisfacevano le condizioni necessarie per l’adesione, come stabilito nel Consiglio europeo di Copenaghen del dicembre 2002) è guidato dagli stessi motivi che ispirarono Jean Monnet, Robert Schuman e Konrad Adenauer dopo la Seconda guerra mondiale. Si tratta, scriveva Prodi, di estendere la pace, la stabilità, la democrazia e la prosperità, che l’Unione Europea ha sperimentato con tanto successo, all’intera area compresa tra il Mar Baltico, l’Adriatico e il Mar Nero.

La crisi finanziaria (americana) del 2008 e le sue conseguenze nel 2009 hanno contribuito a un nuovo cambio di passo degli Stati Uniti: da un lato, mentre la crisi finanziaria per gli Stati Uniti poteva rivaleggiare con quella degli anni Trenta, o almeno gettare un’ombra scura sul lungo periodo di crescita economica degli Stati Uniti dalla Seconda guerra mondiale, la Russia ha vissuto una crisi molto più profonda di quella degli anni 90, per di più aggravata dal prezzo del petrolio in costante discesa; dall’altro, il momento di indebolimento della Russia fu colto dagli Stati Uniti, nonostante i lucidi e lungimiranti consigli di dissuasione di Fiona Hill, approfittando del vertice Nato a Bucarest (2008) per invitare ufficialmente nell’alleanza militare Georgia e Ucraina. L’irritazione della Russia si fece subito sentire con l’intervento militare in Georgia.

L’allargamento della Nato fece coppia con una nuova e poderosa arma fiscale e monetaria: il Quantitative easing (Qe), cioè la decisione politica di facilitare l’aumento della quantità di moneta sostenendone il valore di cambio. Il combinato disposto allargamento della Nato/Qe ha mantenuto la Russia in una situazione di grave declino socioeconomico fino al 2014, l’anno delle Olimpiadi di Sochi, che segnò il momento del riscatto russo con la rivitalizzazione delle industrie e delle infrastrutture, facilitato anche dai ricavi del gasdotto russo-tedesco Nord Stream 1 (inaugurato nel 2012).

La reazione americana fu immediata, in Ucraina. Infatti, non fu casuale che certi settori dell’apparato americano legati ai neocon e neolib (tra cui la famosa Victoria Nuland) assestarono nel febbraio 2014 un nuovo colpo alla Russia con il noto sostegno che trasformò la rivolta spontanea popolare di Euromaidan in una rivoluzione nazionalista ucraina, culminata con la fuga del presidente filorusso, l’ultra corrotto Viktor Janukovyč, e l’elezione del nazionalista filoatlantico Petro Poroshenko, che intendeva riconquistare la Crimea annessa dalla Russia nel marzo 2014 e combattere le forze pro-russe indipendentiste nelle due autoproclamate repubbliche del Donbass. La stessa Victoria Nuland in varie audizioni richieste dal Congresso americano (2016-2022) ha dovuto ammettere che sin dal 2013 gli Stati Uniti hanno finanziato “tutte” le formazioni di opposizione in Ucraina, inclusi vari gruppi paramilitari ultranazionalistici e neonazisti, e che da 2014 gli Stati Uniti e il Regno Unito finanziarono e attuarono il programma di formazione, addestramento e rifornimento delle forze armate ucraine nelle quali erano stati “riconvertiti” molti esponenti paramilitari.

Gli accordi e protocolli di Minsk del 2014 e 2015 promossi dall’Unione Europea con il coinvolgimento di Francia e Germania e dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce) non colsero che dal febbraio 2014 si era verificato un cambio di passo nell’architettura di sicurezza europea. Infatti, la strategia di pace e prosperità dell’allargamento dell’Unione Europea fu, da quel momento, subordinata alla strategia americana che tramite la Nato assicurava la “profonda cooperazione” dell’Ue (si veda la Joint Declaration Eu-Nato del 2016, poi riaffermata e rinforzata nel 2018). Il cambio di passo significava che, come settant’anni prima, è l’America che fa l’Europa.

L’ex ministro della difesa tedesca (2013-2019) Ursula von der Leyen, nel suo discorso di insediamento del 2019, prometteva che la sua Commissione europea aveva come obiettivo di “proteggere il nostro stile di vita europeo, un’Europa più forte nel mondo e una nuova spinta per la democrazia europea”. Complice la tumultuosa presidenza americana di Donald Trump e la gravità della pandemia Covid-19, nel 2020 Ursula von der Leyen operò una metamorfosi, cambiando il discorso dell’insediamento nel concetto di “autonomia strategica” dichiarando la sua intenzione di avere una “Commissione geopolitica”: i membri della Commissione, tra cui Josep Borrell e Thierry Breton, affermarono che il soft power dell’Europa doveva essere integrato da una dimensione di potere più dura.

L’Operazione militare speciale della Russia in Ucraina, lanciata con l’invasione delle forze armate russe il 24 febbraio 2022, ha imposto un ulteriore cambio di passo della strategia dell’Unione Europea, che ha risposto risolutamente attivando i fondi e i meccanismi programmati nel 2021: adozione rapida di misure per sostenere finanziariamente l’Ucraina e la crisi umanitaria;  invio di armamenti al governo ucraino nel rispetto del principio dell’autodifesa sancito dall’articolo 51 della Carta Onu; applicazione di contromisure economiche molto restrittive alla Russia (presentate come sanzioni, ma che tecnicamente sono ritorsioni e forme di embargo). Evidentemente, è stata un’inaugurazione della “Commissione geopolitica” in un’inedita unitarietà d’azione attorno a una strategia coordinata con e dagli Stati Uniti.

D’altra parte, non si può dimenticare che gli Stati Uniti, in forza della leadership che esercitano sul continente europeo, bilateralmente e attraverso la Nato, “lungi dall’essere il fuoco della guerra in Europa sono l’argine vero contro l’estensione del conflitto nel continente che storicamente è stato tormentato per secoli da lunghi massacri tra vicini”. La sintesi mediana d’azione finora trovata dall’ambiziosa “Commissione geopolitica” non risolve la scomposizione d’interessi e percezioni degli Stati europei che restano divisi tra posizioni inconciliabili e capaci di odiose alleanze a geometria variabile: la difesa dello statu quo con la Russia per perpetuare i benefici energetici ed economici; la rabbiosa e atavica avversione alla Russia; la scelta di campo pro-americana o pro-russa a prescindere dai vantaggi/perdite.

Indubbiamente, il 2022 ha segnato un profondo cambio di passo dell’Ue rispetto all’impostazione dei primi anni Duemila: “per noi europei si è esaurita la lunga stagione di pace”, ha dichiarato Giuliano Amato, che ha aggiunto di “avvertire il peso di un fallimento europeo e dell’intero Occidente” per non aver fatto nulla per costruire la pace in Europa seguendo l’impostazione strategica del 2002. Si è tornati alle modalità della Guerra fredda nella quale la leadership è americana e l’Europa occidentale è al suo seguito.

Anche padre Antonio Spadaro SJ di Civiltà Cattolica esprime dubbi pesanti sull’impostazione dell’Europa geopolitica che pare muoversi secondo il manicheismo che distingue (col coltello) l’impero del bene e l’impero del male: noi e loro. Una retorica eretica della civiltà dello scontro metafisico e necessario, al quale non si risponde con l’equidistanza, ma con la volontà di risolvere i conflitti, non di vincere sull’altro.

Confondere le due cose è davvero fatale. Spostare tutto il male da un lato e tutto il bene dall’altro è operazione che trasforma la politica in religione. È l’operazione metafisica promossa dal Patriarca Kirill, che noi ora rischiamo di replicare dall’altra parte.

Dunque, una cosa è la scelta di campo e un’altra il manicheismo. Se la scelta di campo politico diventa credo religioso, individuando l’impero del bene dei valori puri incarnato in terra, conclude Spadaro, allora questo non serve affatto a negoziare, ma solo ad esacerbare il conflitto, una volta che è divenuto metafisico.

In questa situazione, gli Stati europei hanno annunciato un generale riarmo al 2% del Pil con l’eccezione tedesca, annunciata dal cancelliere Olaf Scholz, di un punto di svolta (Zeitenwende) per la difesa tedesca, che beneficerà di un fondo di oltre 100 miliardi di euro. Quale sia l’effettiva direzione strategica di tutto questo riarmo non è al momento chiara. L’eco dell’estate del 1914 è assordante!

Intanto, il 26 aprile gli Stati Uniti hanno convocato a Ramstein (simbolicamente, una base americana in Germania/Ue) un vertice di coordinamento logistico per l’invio degli armamenti all’Ucraina. Piuttosto è sembrato un “consiglio di guerra” dei volenterosi, per contare numericamente la forza politica della leadership americana. Un vertice che va al di là dei rituali e della portata effettiva della Nato, il famoso Occidente a guida americana ha raccolto una quarantina di paesi contro il resto del mondo, che è la maggioranza per popolazione, crescita e numero. Il messaggio del segretario alla Difesa americano è stato finalmente chiarissimo: “la guerra in Ucraina è una guerra americana contro la Russia per indebolirla e rendere impossibili le sue offensive” (probabilmente, la strategia americana a lungo termine riguarda le attività della Russia in Medio Oriente e nel Sahel ma soprattutto nell’Artico. La presidenza di turno del Consiglio dell’Artico è della Russia fino al 2023 e dal 3 marzo scorso, una settimana dopo l’inizio del conflitto ucraino, tutti i cinque membri non russi si sono autosospesi quindi il Consiglio non opera più). Questo è chiaramente l’obiettivo americano che segna l’emarginazione dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri, che stanno subendo una guerra sul loro territorio (a loro insaputa) e senza obiettivi comuni.

Rimane la gravità dell’azione delle autorità governative nazionali ed europee che non hanno spiegato ai loro popoli, e Parlamenti, quali saranno le conseguenze in caso di vittoria o sconfitta in questa guerra. Il 28 aprile, il presidente americano Biden ha annunciato un ulteriore piano di assistenza militare all’Ucraina per 33 miliardi di dollari, approvato dal Congresso con una legge che velocizza i rifornimenti. Ad oggi, dopo circa due mesi dall’inizio del conflitto, il totale degli aiuti militari americani all’Ucraina totalizzano 47 miliardi di dollari. Le retoriche contrapposte americane e russe ci dicono che “l’Ucraina vincerà” e che “la Russia non può perdere”. L’Europa sonnambula scivola nella follia del Giano bifronte!

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