Una parola che è entrata nel comune sentire in questi tempi è “crisi”. Crisi politica, crisi economica, crisi demografica, ecc. Il termine ha solo un’accezione negativa oppure ci si può ricavare qualcosa di più di un senso di depressione? Quella sensazione di vuoto che vediamo spesso affiorare nella ricerca giovanile di un’identità personale può entrare a far parte, per così dire, di un ambito di relazioni pedagogiche? Lo spazio-laboratorio dedicato alle meraviglie del cervello umano al Meeting di Rimini propone a un certo punto del percorso questa riflessione: dopo la nascita, i circuiti embrionali vengono perfezionati e stabilizzati tramite una riorganizzazione a partire dalle stimolazioni sensoriali: esistono periodi di elevata suscettibilità alle modificazioni, noti come periodi sensibili o critici, ed è dimostrato che la mancanza di alcune esperienze in questi momenti può avere effetti drammatici sullo sviluppo successivo della persona.
Fin qui la citazione. Si impongono ora alcune riflessioni in materia di crisi. L’organismo umano vive di crisi e sopravvive grazie alle crisi. Purtroppo? No, per fortuna! Se non esistessero momenti di crisi, di riorganizzazione dei materiali percepiti, il singolo uomo non avrebbe la possibilità di entrare in rapporto con nuove situazioni che gli si prospettano. La fonte della crisi è un’esperienza nuova o comunque ciò che il nostro cervello (diciamo meglio uscendo dal linguaggio specifico: la nostra ragione) coglie come esperienza.
Prima di tutto l’esperienza è un’apertura della ragione alla realtà che individua nella circostanza un’opportunità. Non è difficile capirlo se si tengono presenti spunti drammatici che il Meeting di Rimini ricava dalla “crisi” del Venezuela e rilancia all’attenzione di tutti. Il documentario sulla “resilienza” venezuelana della giornalista Marinellys Tremamunno è uno di questi. Dovrebbe essere meditato dai nostri politici e dai nostri educatori, cioè dalla due categorie che sono in questo momento più prossime alla crisi. Gli uni perché l’hanno cercata, gli altri perché la incontrano quotidianamente.
Le interviste alle mamme venezuelane che non hanno di che dare da mangiare ai propri piccoli si rincorrono nel filmato. A un certo punto una giovane che si è messa a disposizione della parrocchia aderendo all’opera ”pentole solidali” pronuncia questa frase: “Dio ci ha dato questa sofferenza per rinforzarci”. Attenzione: non ha detto “per essere più buoni” o “per renderci più uniti”. No. La purificazione non riguarda l’etica o la giustizia. Riguarda anzitutto la propria struttura umana. Se il Venezuela verrà fuori dalla crisi spaventosa che lo attanaglia (ci vorranno decenni probabilmente) non sarà, solo, per il cambiamento dell’assetto politico. Che comunque dovrà cambiare. Non sarà, solo, per aiuti esterni che arrivano e continueranno ad arrivare. Lo scatto di reni è tutto interno al popolo in questo momento, ai poveri che si aiutano tra di loro. Poveri che aiutano altri poveri a non maledire la circostanza, ma a guardarla in faccia come segno di una dimensione dell’umano che non è mai definito dal perimetro delle proprie reazioni, pure comprensibili.
In Venezuela la crisi scalfisce e scarnifica i bisogni essenziali: alimentarsi, comunicare, avere un lavoro e una istruzione. Al 70% della popolazione in questo momento è tolto tutto, restano solo gli occhi con cui piangere o le braccia per fare a pugni o ancora le gambe per scappare, chi riesce. Eppure in questa miseria estrema della condizione materiale, l’umano emerge in chi alza lo sguardo e decide di farsi leggere il proprio limite da un altro. L’altro può essere l’amico, il parroco, il vicino. Comunque è segno di qualcosa che vivendo nella stessa carne è oltre l’orizzonte della lamentazione e del ripiegamento su di sé.
La strada tracciata da questi esempi, come quello delle comunità solidali dentro il caos venezuelano, dicono molto al nostro modo di rapportarci ai fenomeni di crisi. Per chi ha in mano il nostro destino politico suggeriscono di non disperdere le energie e le risorse umane e culturali che il popolo ha accumulato. A chi ha in mano come educatore il futuro delle giovani generazioni raccomandano di non correre via con una pacca sulla spalla a chi vive un momento di difficoltà. La crisi dell’altro, nella persona dell’educatore (del buon educatore), è un modo per far funzionare il cervello. Un’esperienza da fare entrare, da condividere, da guardare per giudicarla insieme.
Dalla crisi si esce arricchiti solo se non ci si lascia prendere dallo sport nazionale di dare la colpa agli altri o magari alle strutture. L’umano non tradisce mai la propria profondità.