In Russia, in una comunità tradizionale come quella ortodossa, una recente dichiarazione del metropolita Ilarion Alfeev – uno dei gerarchi più in vista del patriarcato di Mosca – non ha mancato di suscitare un certo scalpore. Nella sua trasmissione settimanale Ilarion ha affermato che, “se i genitori non vogliono educare un bambino nella fede ortodossa, purtroppo non si può battezzarlo. Perché il battesimo non è un rituale magico. Non si può battezzare un bambino perché non si ammali, o per chissà quali altri motivi. Si battezza un bambino perché si vuole educarlo nella fede”.
Un’ammissione indiretta che la strada verso una maturità di coscienza cristiana è ancora lunga: come ci si era già resi conto decenni prima in Occidente, anche in Russia le strutture ecclesiastiche ripristinate in questi trent’anni, ormai consolidate e perfino ben organizzate, nascondono spesso il vuoto, una carenza educativa, l’assenza di una reale comunità.
Nel secolarismo largamente imperante nella vita sociale, fra tentazioni nostalgiche di miti imperialistici e di ritorno a uno stalinismo identificato con la grandezza della patria, i credenti faticano a trovare un punto di riferimento quale potrebbe essere, per la Chiesa cattolica, il magistero pontificio. Difficile che la gerarchia si esprima sui problemi che interpellano con urgenza le coscienze: in particolare, sul conflitto che in questi giorni lascia con il fiato sospeso tutto il mondo. Troppi sono i vincoli, gli interessi in gioco, perché l’episcopato possa prendersi queste libertà.
Cellula base, punto di riferimento nella vita della Chiesa in Russia oggi resta ancora la parrocchia. In assenza di movimenti laicali e di comunità d’ambiente, il punto di riferimento sono sacerdoti che raccolgono intorno a sé comunità che si identificano come parrocchie – non definite in senso territoriale ma personale, e in cui si osserva un impressionante divario di posizioni e orientamenti, sulla vita liturgica, sull’attività caritativa, sulla cultura. La pandemia ha accentuato questo processo, svuotando ulteriormente alcune parrocchie e, viceversa, rafforzandone altre, nella misura in cui esse sanno offrire alle persone non semplicemente un rito, ma un luogo di incontro, di confronto, di giudizio.
In particolare, in questi ultimi giorni, accanto alle fonti d’informazioni ufficiali, si è creata una vera e propria rete alternativa di informazione ma soprattutto di riflessione e giudizio attraverso i social – il samizdat del giorno d’oggi, potremmo dire. In questo flusso si trovano spesso anche omelie, articoli, post di autori cristiani. Condivido qui due testi che mi sono stati girati in questi giorni più di una volta da amici russi.
Il primo appartiene al metropolita Antonij di Surož, un’omelia pronunciata nell’agosto 1968: il mondo attonito assisteva all’invasione della Cecoslovacchia, i carri armati erano entrati in Praga soffocando la “primavera” che tante speranze aveva suscitato, anche all’interno dell’Urss. Di fronte al “calice dell’ira, del dolore, della sofferenza che si riempie fino all’orlo, e ancora una volta trabocca”, Antonij proponeva ai suoi parrocchiani una via esigente, quasi impossibile, ma che è la “via di Cristo e quindi la nostra via: e consiste nello stringere, nella consapevolezza e nella percezione dell’orrore che sta avvenendo, gli uni e gli altri con uguale amore, nell’abbracciarli – non con compartecipazione, ma con compassione; non con condiscendenza, ma con la consapevolezza dell’orrore davanti a cui si trova l’ingiustizia, e della croce davanti a cui si trova la giustizia… e nel comprendere che il nostro posto è sulla croce, e non semplicemente ai piedi della croce”.
Di fronte al senso di impotenza che poteva facilmente assalire in quei giorni gli uomini di buona volontà, esattamente come ci assale oggi, di fronte alla tentazione di ridurre tutto ai giochi di potere, di scommettere sui “buoni” e “cattivi” di turno, di pensare che tutto fosse affidato allo scacchiere politico e diplomatico, Antonij aveva il coraggio di proporre di riporre ogni speranza in una “preghiera per il mondo” che però, specificava, dev’essere “come versare il sangue. Non la facile preghiera che eleviamo nella nostra quiete imperturbabile, ma la preghiera che dà la scalata al cielo, che non dà tregua, che nasce dall’orrore provocato dalla compassione, che non ci permette più di accontentarci della nullità, futilità della nostra vita, che esige da noi che finalmente comprendiamo la profondità della vita anziché trascinarla indegnamente: indegnamente per noi, indegnamente per Dio, indegnamente per il dolore e la gioia, i patimenti della croce e la gloria della Resurrezione che continuamente si avvicendano e si intrecciano nella nostra terra”.
“Cristo non ha scelto – concludeva Antonij –. Cristo è morto perché i giusti sono perseguitati e perché i peccatori vanno alla perdizione. Ebbene, in questa duplice unità con gli uomini che abbiamo intorno, in questa duplice unità con il giusto e il peccatore preghiamo per la salvezza dell’uno e dell’altro, impetriamo la misericordia di Dio, affinché i ciechi acquistino la vista, affinché la giustizia si affermi – non il giudizio ma la giustizia che conduce all’amore, al trionfo dell’unità, alla vittoria di Dio”.
Negli stessi giorni, la solidarietà espressa al popolo cecoslovacco da un pugno di dissidenti russi che scesero sulla Piazza Rossa con uno striscione su cui si leggeva “Per la vostra e la nostra libertà”, traduceva in qualche modo, laicamente, queste parole, mostrava la vera statura, il potenziale umano e cristiano di persone che non si lasciavano confondere con il regime in cui vivevano.
Il secondo testo è un’omelia pronunciata in una parrocchia moscovita qualche giorno fa: padre Aleksej Uminskij ha interrogato i suoi parrocchiani sul motivo per cui finora “non si è creata un’autentica devozione popolare, universale dei martiri” russi del XX secolo, che pure sono i nonni o i bisnonni di quanti frequentano oggi la chiesa. Si preferisce pregare santi del remoto passato “rinomati” per i loro miracoli, o magari “santa Barbara, di cui portano il nome le nostre vittoriose forze missilistiche; è la santa che protegge le armi strategiche dell’esercito russo”.
“Invece nelle vite dei nostri nuovi martiri e confessori – continuava padre Aleksej – ahimè, non c’è nessun miracolo. Niente: li ammazzano e non scorre latte invece del sangue; li torturano e loro non guariscono, e nessuno guarisce toccando le loro reliquie, nessuno riceve un bonus spirituale dal loro culto. Se guardiamo i loro volti, fotografati prima dell’esecuzione, in quelle terribili liste di fucilazione, non si capisce neanche come si possa pregare davanti a loro. Cosa si può chiedere a queste persone che hanno sofferto nei lager staliniani? Possiamo chiedergli la guarigione? Di trovar casa? Di avere un buon raccolto? La felicità familiare, la fortuna negli affari?… Si possono chiedere cose simili a questa gente, fotografata prima della fucilazione? No, non è possibile, no”.
Nelle icone san Giorgio combatte contro draghi fiabeschi, lontani dalla vita di tutti i giorni. “Eppure noi i draghi veri, quelli umani, li incontriamo tutti i giorni, solo che ci siamo abituati – ha fatto notare il sacerdote – abbiamo imparato a costruirci corazze, a scendere a compromessi con loro. Abbiamo imparato a tacere quando questi draghi vomitano il loro odio, fiele e rabbia; quando umiliano gli altri, torturano gli altri, mettono in galera gli innocenti”.
“I martiri e confessori del nostro tempo non hanno voluto convivere con i draghi, loro dicevano la verità; non avevano paura della verità e per la verità di Dio sono andati alla morte, testimoniando Cristo. Invece a noi viene comodo vivere coi draghi, per questo preghiamo gli antichi santi che ci facciano vivere felici e contenti insieme ai draghi… Varrebbe la pena che chiedessimo ai martiri dei nostri giorni di diventare dei veri cristiani, delle persone oneste che non hanno paura dei draghi, che non hanno paura di dire la verità, di testimoniare quella stessa verità divina che ci annuncia il Vangelo”.
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