In Siria gli stipendi pubblici arrivano a 20 euro al mese e per gli altri lavori si arriva anche a meno. La gente sopravvive solo grazie agli aiuti umanitari, ma quello che più conta ora è dare una struttura credibile allo Stato e garantire un accordo tra le parti che porti alla sicurezza del Paese. Molti rifugiati che erano riparati all’estero stanno tornando, ma rischiano di non trovare più la loro casa, un problema in più, spiega Valeria Orsolano, responsabile di AVSI in Siria, in un Paese che ha subito bisogno di riferimenti per non cadere ancora di più nel caos. Il “golpe” che ha spodestato Assad era stato preparato da tempo, i nuovi “padroni” si sono mossi secondo un piano.
Com’è la situazione oggi in Siria?
Per il momento sono in Libano, in attesa di verificare se ci sono le condizioni per rientrare in Siria. I colleghi siriani che sono rimasti a Damasco, comunque, mi dicono che ora la situazione è più calma rispetto ai primi giorni. Ci stanno sconsigliando di rientrare perché le strade potrebbero non essere così sicure: al confine con il Libano da parte siriana non ci sono neanche le guardie di frontiera, è il motivo per cui ora tutti i giornalisti riescono a entrare nel Paese. Continuano le manifestazioni per celebrare la caduta di Assad, che sono comunque pericolose perché si spara in aria. È un momento di grande incertezza: il fronte dei ribelli non è così unificato, resta la paura che si crei una nuova crisi.
Quali sono gli elementi che confermano questo timore?
Dal 28 novembre c’è un milione di nuovi sfollati interni. A Nord di Aleppo, per esempio, ci sono scontri tra curdi e fazioni supportate dalla Turchia. E questo ha provocato flussi di persone che se ne sono andate da quell’area, gente che magari è già stata sfollata tre o quattro volte in precedenza, che probabilmente viveva già in accampamenti e non in case. Il valore della lira è sceso, ma negli ultimi giorni era salito. Prima per un dollaro ci volevano 15mila lire, poi al momento della caduta del regime si è saliti a 40mila, ora si è tornati a 15mila. Questo in un Paese in cui l’inflazione è un problema enorme. Nei primi giorni del nuovo corso i negozi erano chiusi o semivuoti e la grande paura era quella del collasso sanitario.
Perché?
Arrivavano report che parlavano di ospedali senza medici, farmaci e rifornimenti. Come AVSI questa è l’unica attività che siamo riusciti a tenere aperta durante questo periodo di incertezza: sosteniamo tre ospedali fra Damasco e Aleppo e cinque dispensari, che sono rimasti operativi.
Quali sono i bisogni primari della gente in questo momento?
Ad Aleppo non c’è l’acqua, perché a nord della città ci sono stati degli scontri vicino alla diga di Tishreen che hanno danneggiato i cavi che forniscono elettricità alla stazione di Al-Khefseh e di conseguenza interrotto la fornitura idrica. Già prima di questa crisi in Siria si parlava di 16 milioni di persone che avevano bisogno di assistenza umanitaria. E ora ci dobbiamo preparare ad affrontare i nuovi bisogni dei siriani che rientreranno.
Molti stanno già rientrando, un problema non da poco per il nuovo governo?
Si tratta di tutte le persone che se ne erano andate per non svolgere il servizio militare o per motivazioni politiche. Molti Paesi in cui avevano trovato posto spingono per il loro rimpatrio, ma di certo in Siria non è tutto pronto per accoglierle, già è un problema sostenere quelli che non se ne sono andati. Ora c’è un governo provvisorio e le autorità attuali hanno gestito l’area di Idlib per anni, ma è molto diverso che gestire grandi città come possono essere Aleppo e Damasco. In Medio Oriente non si è mai visto che la caduta di un regime apra di per sé periodo di pace e sicurezza, al di là dei grandi festeggiamenti cui assistiamo.
I siriani che ritornano rischiano di non trovare le loro case?
Molti di loro non avranno una casa perché il Paese è ancora distrutto oppure, come è successo a persone che si sono allontanate da Aleppo e poi sono tornate, potrebbero ritrovare le loro abitazioni occupate da fazioni di ribelli che se le sono prese. Anche se la casa rimane in piedi non è detto che si riesca a mantenere il diritto di proprietà.
Quali sono le priorità del Paese in questo momento?
Occorre che reggano le istituzioni, perché non si cada nel caos. Nel fronte unificato bisogna trovare un accordo per non aggravare la crisi, per non diventare una nuova Libia o un nuovo Libano, dove l’assenza di un’intesa per la divisione dei poteri ha causato una fase di perenne instabilità politica. Il principale problema è quello della sicurezza: finché rimangono diverse fazioni armate il rischio di altri conflitti interni resta.
I ribelli coalizzati intorno ad Hayat Tahrir al Sham sono arrivati preparati al colpo di Stato? Danno l’idea di averlo preparato prima?
Assolutamente sì. Quando non erano ancora a Damasco i colleghi di Aleppo mi giravano QR code che rimandavano a locandine del loro ufficio umanitario, che già sapevano di aprire in una sede precisa. Giravano gruppi whatsapp con una hotline per i problemi con l’elettricità e un’altra con le nuove autorità di sicurezza. Erano preparatissimi, stavano organizzando tutto da tempo, almeno per Aleppo. Nei primissimi giorni dopo il loro arrivo avevano attivato anche la distribuzione di pane, di acqua, di provenienza turca.
Consumi, lavoro, stipendi, come vive la gente oggi in Siria?
Negli ultimi mesi i dipendenti statali guadagnavano 20 dollari al mese e dubito che i soldati ne guadagnassero di più, probabilmente anche questo è uno dei motivi perché li abbiamo visti ritirarsi subito. Fuori dal settore pubblico si prende anche meno. E un plico di pane arabo, che dura un giorno, costa un dollaro.
Praticamente si fa la fame.
Sì. Sono stata ad Aleppo nel 2023, poi mi sono trasferita a Damasco: in Siria c’è stata una crisi dopo l’altra, compresa quella del terremoto. Adesso ci preparavamo a uscire dalla fase dell’emergenza, che per le Ong vuol dire distribuire i pacchi alimentari, dare assistenza economica diretta alle famiglie con un supporto mensile, distribuire kit per l’igiene. Eravamo pronti a iniziare a parlare di sviluppo e ricostruzione.
Si mangia solo grazie agli aiuti umanitari?
È così. Le attività economiche hanno ripreso in modo molto limitato, per colpa anche delle sanzioni. Il grande business era per le persone vicine al regime. Probabilmente è caduto così in fretta perché non riusciva più a garantire neanche chi lo sosteneva. Ricordo quando incontravamo i responsabili dei dipartimenti di Educazione per attività legate alle scuole: entravamo in uffici con pochissimi mobili, con un direttore che comprava di tasca sua pure le penne.
(Paolo Rossetti)
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