In Siria manca tutto, ma soprattutto la speranza. L’acqua scarseggia, l’elettricità pure, le sanzioni internazionali complicano la vita della popolazione e le conseguenze della guerra e del terremoto del 2023 si fanno ancora sentire pesantemente, tanto da togliere alle persone la capacità di immaginare un futuro che non sia lontano dalle loro case, all’estero.



Una situazione molto difficile nella quale, però, spiega Marco Perini, regional manager AVSI per l’area MENA (Middle East e North Africa), c’è chi cerca di aiutare la popolazione a risollevarsi. AVSI, appunto, lo fa con progetti di formazione professionale, di sostegno alle attività agricole e di assistenza sanitaria. L’obiettivo è realizzare qualcosa di concreto che rappresenti un punto fermo da cui ricominciare, per credere ancora nella rinascita di un Paese che in certe zone conosce solo distruzione e abbandono, e che ricorda drammaticamente quello che in un’altra guerra, a Gaza, è successo in questi ultimi mesi.



Qual è la presenza di AVSI in Siria?

Abbiamo 20-25 colleghi di staff siriani, con tre uffici a Damasco, Aleppo e Latakia. Con dei progetti di Ocha (l’Ufficio dell’ONU per gli affari umanitari, nda) stiamo sostenendo scuole che sono state colpite dalla guerra, fornendo materiali scolastici per i bambini. Cerchiamo di formare gli insegnanti, ma anche di garantire l’accompagnamento psicosociale degli studenti e degli stessi docenti: un intervento importante perché i traumi della guerra si sentono ancora tutti e ad essi si aggiungono nuovi traumi, come il terremoto di Aleppo, il colera, la mancanza di elettricità, il conflitto a Gaza e con Hezbollah che ogni tanto porta bombardamenti anche in Siria. Un supporto strategico che offriamo anche ai genitori degli alunni.



Un intervento legato specificamente alla realtà scolastica?

Lo realizziamo nelle classi ma, ad Aleppo, dove terremoto e colera hanno davvero lasciato il segno, lo facciamo pure attraverso la formazione professionale per giovani e meno giovani che non hanno avuto la possibilità di seguire un percorso di studio, per permettere loro di trovare lavoro. Ciò che si è perso in Siria non sono le cose materiali, che comunque non ci sono perché il 90% della popolazione ha bisogno di aiuti umanitari; quello che manca è la speranza in un futuro.

La sorte si è proprio accanita sulla Siria: la guerra, il sisma, le sanzioni. Quanto è difficile riprendersi dopo una serie di disgrazie come queste?

Nel Paese c’è un grandissimo bisogno di acqua, la cui mancanza è la principale causa della diffusione del colera. Non c’è elettricità (ecco perché le aziende non possono riprendere la loro attività): le infrastrutture sono state danneggiate dal conflitto, non sono state riparate oppure non è mai stata fatta manutenzione. Le sanzioni impediscono di comprare i pezzi di ricambio. Se un macchinario medico si rompe è difficile ripararlo. Le sanzioni, dal punto di vista teorico, non impediscono gli acquisti per certe necessità, ma le banche hanno paura ad autorizzare pagamenti o ricevere soldi per la Siria: temono che le imprese occidentali finiscano comunque per incorrere nelle sanzioni.

Le sanzioni però non dovrebbero valere in campo umanitario. Non è così?

Il clima sanzionatorio rende difficile anche a noi trasferire soldi dall’Europa alla Siria, dove li usiamo per mandare a scuola dei bambini o aiutare gli agricoltori a comprare sementi. La Siria ha una somma di sfortune che messe assieme fanno pensare che si stesse addirittura meglio durante la guerra. Oggi il bisogno umanitario è più alto di quando cadevano le bombe. I 20-25 impiegati di AVSI, che hanno un salario più alto rispetto a un insegnante che guadagna 20-30 dollari al mese e che deve fare tre o quattro lavori per sfamare la famiglia, nonostante questo non vogliono restare qui, non credono nel loro futuro in Siria. Per questo motivo la cosa più importante per noi è mettere dei semi di speranza.

Come?

Attraverso la formazione professionale, ad esempio. Ad Aleppo stiamo partendo con un progetto finanziato da aziende italiane: chiederemo alle poche imprese esistenti sul territorio quali sono le professionalità che non trovano, per formare giovani senza lavoro e rispondere alle esigenze reali del mercato. Con la speranza che una prospettiva concreta di lavoro dia loro voglia di rimanere nel Paese.

Ci sono dei settori che garantiscono qualche opportunità?

Non c’è elettricità ad Aleppo, ma si è sviluppato il settore del fotovoltaico. Tuttavia, non c’è know-how che riguardi la manutenzione, l’installazione, l’utilizzo corretto degli impianti: c’è tutto un settore nuovo che deve svilupparsi dal punto di vista delle competenze. La Siria è un Paese chiuso su sé stesso, c’è bisogno di formare insegnanti, ma anche che i giovani imparino lavori nuovi. Vale anche per la riparazione dei computer, dei telefonini o per le tecniche di colture poco idroesigenti.

Avete progetti anche sull’agricoltura?

Alla periferia di Latakia stiamo fornendo materiale e formando agricoltori all’utilizzo consapevole dell’acqua, insegnando l’irrigazione a goccia, rispondendo così alle necessità di un Paese in cui l’acqua non c’è. Il pensiero di fondo è che la Siria non va dimenticata: non ci sono le bombe, ma la gente sta peggio di prima.

Come AVSI svolgete anche attività nel settore sanitario. Com’è la situazione sotto questo punto di vista?

Siamo arrivati a 168mila cure erogate ad altrettante persone che non avrebbero potuto curarsi. Tutto questo grazie al progetto “Ospedali aperti” realizzato con il nunzio apostolico, cardinale Mario Zenari. Insieme alla Nunziatura collaboriamo con tre ospedali cattolici e sei dispensari, assicurando interventi chirurgici ed esami approfonditi, ma facendo anche opera di prevenzione: in questa situazione di povertà le persone non hanno più le medicine per curare il diabete o per controllare la pressione, e quindi le patologie peggiorano. Noi ogni mese cerchiamo di garantire anche le cure minime che le persone non possono più permettersi.

Resta la sensazione che la Siria sia un Paese abbandonato a se stesso, con zone che a livello di distruzione ricordano Gaza.

In alcune zone è ancora così, perché la ricostruzione non c’è mai stata. Da Aleppo a Damasco si attraversano villaggi ormai totalmente abbandonati e distrutti. Questo non significa rinunciare alla speranza, l’obiettivo dei nostri progetti è questo.

(Paolo Rossetti)

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