Il peso di dodici anni di guerra, della pandemia, di un terremoto devastante, di una povertà endemica, per molti diventa troppo oneroso. E allora ecco che la speranza di una vita migliore i siriani la coltivano soprattutto all’estero. “Non c’è cibo, non ci sono farmaci”, racconta Antoine Audo, vescovo caldeo di Aleppo, “si fa fatica a sopravvivere, è comprensibile che molte famiglie decidano di andarsene in Libano e poi in Canada, in Australia, in Svezia. Così però la Siria, dove il governo è troppo debole per riuscire a ideare e realizzare un piano di sviluppo, si sta spopolando e anche la presenza dei cristiani diventa sempre meno consistente”.
Proprio la comunità cristiana cerca di infondere coraggio alla gente che rimane e si profonde in gesti di solidarietà, grazie anche agli aiuti che arrivano dall’estero. E la Pasqua diventa un’occasione per tornare a parlare di pace, per tornare a credere in un futuro migliore, anche se la realtà induce alla più totale sfiducia in quello che sarà.
Gli echi della guerra, tuttavia, si sentono ancora, come durante l’attacco all’aeroporto di Aleppo, considerato uno snodo per i rifornimenti di Hezbollah, dove di recente un raid israeliano ha ucciso oltre 40 persone.
Dopo la guerra, il Covid e il terremoto, la Siria fa fatica a risollevarsi. Come sta andando in questo momento? Le tragedie del passato pesano ancora troppo?
Non ci sono grandi cambiamenti. Il primo problema è la crisi economica. Tutto è caro nella vita quotidiana: il cibo, le medicine. Ad Aleppo, come in Siria, la povertà è una condizione generale. Una situazione che continua a spingere la gente a fuggire da qui, ad andarsene. Chi può partire parte, questa è la nostra grande sofferenza. Come Chiesa, facciamo di tutto per vivere la solidarietà, ma non è per niente facile, si fa una grande fatica, si tocca con mano la disperazione. Alle celebrazioni delle Palme, della Settimana Santa e di Pasqua le chiese erano piene, abbiamo pregato insieme, ma la situazione è questa. Quando incontriamo le famiglie, il discorso cade sempre sul carovita, sulla difficoltà di trovare cibo. Un vero problema sociale: si deve trovare una soluzione politica, ma quando si guarda al mondo, all’Ucraina, a Gaza, all’Africa, non si trovano motivi per sperare.
Dove vanno i siriani che lasciano il Paese, dove si rifugiano? Partono anche per l’Europa?
Non è facile andare in Europa. Vanno in Libano per chiedere il visto e aspettare di poter viaggiare. Vanno in Canada, perché lì ci sono già altre famiglie siriane, ma anche in Australia, qualche volta in Svezia.
Tutti questi problemi incidono anche sulla convivenza fra cristiani e musulmani?
Non ci sono problemi diretti con i musulmani. Il vero problema resta la situazione politica ed economica. C’è sempre stato un grande rispetto per i cristiani, ma il conflitto a Gaza crea un contesto fatto di paura. Tutti temono che ritorni la guerra e allora molti pensano che sia meglio andare via, anche se questa non sempre può essere la soluzione. Anche altre parti del mondo devono fare i conti con situazioni di tensione e con la crisi economica. Non è un problema solo della Siria: l’umanità intera deve prendere coscienza che c’è bisogno di pace, che bisogna interrompere il commercio delle armi.
Il messaggio che ci viene dalla Pasqua quest’anno, quindi, è quello della pace?
Certo, c’è bisogno di questo. La gente non crede più alla pace, è stanca di vivere sempre con il pericolo della guerra e in mezzo alle difficoltà. Ad Aleppo non si combatte adesso, ma parliamo dei bombardamenti e della povertà ogni giorno.
La Siria, però, è spesso teatro di bombardamenti da parte degli israeliani o dei turchi che prendono di mira le zone abitate dai curdi. La guerra in alcune zone non è ancora veramente finita?
Bombardano gli aeroporti ad Aleppo e a Damasco, poi si cerca di ricostruire. È da anni che succede sempre la stessa cosa.
Il governo ha preso qualche iniziativa per ridurre il peso della crisi sulla gente?
È troppo debole per farlo. L’embargo sulla Siria crea problemi. Non riesce neanche a disporre del petrolio che veniva estratto nel Nord-Est, una ricchezza importante per il Paese. Lo controllano gli americani: un altro elemento che contribuisce ad alzare il livello della povertà. Non abbiamo elettricità, neanche per far funzionare le fabbriche, né la benzina per i trasporti o il necessario per il riscaldamento. La vita è molto cara e ognuno cerca di fare quello che può per riuscire a trovare cibo e medicine.
Il problema principale, comunque, rimane lo spopolamento del Paese: la gente continua ad andarsene?
Sì, è una situazione che comporta un grande cambiamento dal punto di vista demografico. Ma non si può continuare così, si deve trovare una soluzione. Noi facciamo di tutto per fare in modo che la gente resti, ma anche le comunità cristiane ne stanno risentendo.
Qual è il messaggio che manda ai cristiani di Aleppo per la Pasqua?
Per me, la cosa più importante è essere presente con i fedeli, con la comunità, prima di tutto per aiutarli, per promuovere gesti di solidarietà. Stiamo facendo molto per distribuire cibo e farmaci, ma anche dal punto di vista dell’educazione. Cerchiamo di dare il buon esempio in termini di presenza, di servizio e di ascolto, soprattutto fra i più poveri.
In quest’opera, siete sostenuti anche da associazioni internazionali. Gli altri Paesi sono consapevoli delle difficoltà che la Siria sta attraversando?
C’è Aiuto alla Chiesa che Soffre, la Congregazione per le chiese orientali, L’Oeuvre d’Orient in Francia: senza questi aiuti sarebbe molto difficile sopravvivere. Da parte della Chiesa cattolica, comunque, c’è un aiuto molto consistente.
(Paolo Rossetti)
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