Aleppo, la città martire della Siria, dieci anni dopo. Dieci anni dopo la Primavera araba che in questo paese si trasformò nel giro di poco tempo in quella che, insieme all’ex Jugoslavia, è stata la tragedia umanitaria più devastante del dopo guerra. Aleppo, divisa in due tra esercito governativo e forze jihadiste, dove il numero delle vittime civili è stato stimato in oltre 30mila persone, tanto da averle fatto ricevere l’ingrato soprannome di “Stalingrado di Siria”.
Non ha mai abbandonato la sua città in questi dieci anni il gesuita Antoine Audo, vescovo caldeo di Aleppo dal 1992 ed ex presidente della Caritas siriana: “Fu chiaro sin dall’inizio che le manifestazioni della cosiddetta primavera araba erano manovrate dai Fratelli musulmani sunniti. Ben presto arrivarono gli aiuti militari di Arabia Saudita e Turchia per rovesciare gli alawiti che detengono il potere” ci ha detto in questa intervista.
Dieci anni dopo, ci dice ancora, la Siria è un paese distrutto dove la stragrande maggioranza della popolazione soffre la fame e il freddo per via delle sanzioni dei paesi occidentali: “Tantissimi cristiani sono fuggiti o sono sfollati, non potremo più tornare a quel tessuto sociale fatto di convivenza di dieci anni fa. Non potremo più accontentarci della teologia, dei riti e delle confessioni. Abbiamo bisogno di una nuova spina dorsale cristiana che integri l’intera visione del Vaticano II. Fratelli tutti, la fraternità umana sono atteggiamenti da acquisire a seguito di questa guerra”.
Dieci anni fa, il 15 marzo 2011, scoppiò la guerra a Dara’a, nel sud della Siria e al confine con la Giordania. Avevate sperato che la Primavera araba potesse portare a un cambiamento pacifico?
Va ricordato che sin dall’inizio la maggioranza dei siriani non credeva a una primavera araba, come annunciato dai media per giustificare questa guerra. Fin dall’inizio, in Siria, tutti sapevano che erano per lo più Fratelli musulmani sunniti che si ribellavano contro gli alawiti, che sono in maggioranza al potere e che detengono l’esercito. Inoltre, i vari gruppi armati che hanno attaccato e distrutto le infrastrutture dello Stato siriano erano di obbedienza sunnita e hanno ricevuto aiuti militari dalla Turchia, dall’Arabia Saudita e da altri paesi del Golfo.
Cosa resta di questa primavera araba?
La distruzione dell’economia siriana. L’occupazione di gran parte dei territori, soprattutto nella regione di Jésiré dove si trova il petrolio. Con l’islam al servizio del potere politico ed economico, potenze regionali come la Turchia e l’Arabia Saudita hanno sostenuto i gruppi armati sunniti per rovesciare il governo siriano e dare potere ai sunniti siriani, vale a dire i Fratelli musulmani.
Cosa ha voluto dire vivere questi anni di devastazione?
La guerra in Siria è stata un inferno dall’inizio e lo è ancora oggi. Ad ogni tappa speravamo di uscire dal tunnel, e ora la situazione è peggiorata: da un bombardamento all’altro in tutte le regioni, da una carenza alimentare e medica a un’altra di gas ed elettricità. Per rileggere questi dieci anni di guerra, possiamo dire che oggi la maggior parte del popolo siriano soffre per l’alto costo della vita dovuto alla svalutazione della lira siriana. In questa crisi economica ha preso piede una nuova classe benestante, mentre la maggioranza della popolazione è umiliata e privata del necessario: cibo di qualità, medicine, riscaldamento, abbigliamento, istruzione. Con una tale crisi, la strada è aperta alla droga e alla prostituzione, mentre prima la stabilità economica e politica proteggeva le famiglie da questi abusi causati dalla miseria generalizzata.
Una situazione di distruzione generalizzata? Quali speranze concrete?
Distruzione materiale, delle infrastrutture, soprattutto a livello economico e a livello di danno materiale: ferrovie, strade, elettricità, scuole, ospedali, fabbriche. Questa situazione impedisce la visione di un futuro, di una speranza nell’immediato futuro. All’inizio della guerra, si credeva che la guerra fosse questione di pochi mesi. Oggi la maggior parte delle persone cerca cibo e medicine per non morire. I bisogni quotidiani sono cibo, medicine, riscaldamento, gas, elettricità. Tutto è diventato caro a causa della svalutazione della lira siriana, e tutti sperimentiamo la mancanza di tutto e l’umiliazione.
Ad Aleppo, martoriata da incessanti combattimenti, come è la situazione?
Ciò che sto descrivendo si applica in modo particolare ad Aleppo, la cui infrastruttura economica è stata distrutta e che, come tutti i siriani, soffre dell’embargo imposto da Stati Uniti, Unione Europea e Gran Bretagna. La ricostruzione presuppone la revoca delle sanzioni contro la Siria. Tuttavia, non avendo trovato una soluzione politica alla crisi siriana, e con un Paese minacciato dagli obiettivi di turchi, curdi e potenze occidentali, non è possibile parlare di un progetto di ricostruzione generale che presupponga stabilità e budget enormi. Ma possiamo ugualmente segnalare iniziative di ricostruzione, a livello di strade, come a livello di mercati e negozi, di piccole industrie e laboratori di abbigliamento.
La Siria era un modello di convivenza tra religioni e culture diverse: adesso?
Parliamo di dieci milioni di sfollati e rifugiati all’interno della Siria, come nei paesi vicini: Turchia, Libano, Giordania, Iraq ed Egitto, per non parlare di tutti coloro che sono emigrati in Europa, Canada e Australia. Come cristiani che hanno perso più della metà dei fedeli di tutte le Chiese, specialmente i giovani e le famiglie ricche, vorremmo che tutte queste famiglie tornassero, avessero una presenza significativa e viva. Ma chi sarebbe attratto dalla situazione che abbiamo appena descritto, da osare considerare un ritorno?
Come Chiesa non avete mai smesso di aiutare la popolazione, quali le iniziative più importanti che seguite?
Per il momento, come Chiesa, stiamo cercando di aiutare le famiglie e le persone in modo che possano continuare a vivere il più degnamente possibile, in modo da non fare i bagagli ed emigrare. Allo stesso modo, è difficile prevedere il ritorno di coloro che sono emigrati in Occidente e soprattutto tra i giovani. Chi invece si trova nei paesi vicini potrà tornare in Siria più facilmente.
Veniamo a una domanda che ci sta a cuore, come Chiesa e come cristiani: come immaginare il futuro della Chiesa in Siria?
È certo innanzitutto che non si può più considerare la presenza cristiana com’era prima della guerra, secondo il modello del Novecento, una presenza consistente tra il 15 e il 20% della popolazione, con fiorente attività economica e culturale. Dovremo credere nella ricostruzione di un tessuto sociale cristiano adattato al XXI secolo. Non potremo più accontentarci della teologia, dei riti e delle confessioni, come gente alla ricerca della sola ricchezza e della superiorità economica e culturale.
Cosa ha significato per i cristiani siriani la recente visita del Papa in Iraq?
Abbiamo bisogno di una nuova spina dorsale cristiana che integri l’intera visione del Vaticano II. Fratelli tutti, la fraternità umana sono atteggiamenti da acquisire a seguito di questa guerra per poter avere una presenza viva e significativa in questa società araba musulmana e in questo mosaico di religioni ed etnie.
Il Papa ha dato un messaggio di fratellanza ben preciso che non piace a tutti. È questa la strada?
Di fronte alla modernità e nella lotta contro la secolarizzazione e l’ateismo, l’islam mette in discussione la propria identità e cerca la sua strada e la sua stabilità sociale e religiosa. Crediamo, soprattutto in seguito al viaggio di Papa Francesco in Iraq e anche ad Abu Dhabi e in Egitto (Università Al Azhar), ai suoi incontri con lo sceicco Ahmad Al Tayyeb, suprema autorità sunnita, e al suo incontro con l’ayatollah Al Sistani, suprema autorità sciita, ad Al Najaf (Iraq), che siano tutti gesti e atteggiamenti di rispetto, ascolto e fraternità che d’ora in poi dovrebbero ispirare i cristiani. I cristiani di Siria, con la loro arte di inculturarsi nella cultura araba e musulmana, sono capaci di ricostruire per tutti ponti di riconciliazione e di speranza nel cuore di questo XXI secolo assetato di pace e giustizia.
(Paolo Vites)
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