La Lega araba sta discutendo sulla riammissione della Siria. Una novità che cambia il quadro nel Medio Oriente e apre a nuovi scenari di distensione. Soprattutto potrebbe dare a Damasco l’opportunità di pensare seriamente a una ricostruzione dopo i disastri della guerra e del terremoto.

Un cambiamento che nell’area è stato favorito dal riavvicinamento Arabia Saudita-Iran voluto dalla Cina, ma che attende anche le mosse degli Usa, soggetto fondamentale per riuscire a togliere le sanzioni internazionali contro Assad e dare impulso finalmente alla ricostruzione di un Paese martoriato.



Lo spiega Firas Lutfi, ministro francescano della Regione San Paolo (Giordania, Libano, Siria). La strada della ricostruzione è lunga, ma è molto più difficile quella della riappacificazione delle parti: qui anche i francescani vogliono giocare il loro ruolo.

A che punto siamo nella procedura di rientro della Siria nella Lega araba e cosa può significare concretamente per il Paese?



Il rientro non è ancora ufficiale ma la Siria è stata invitata per il prossimo Comitato. È ufficiale, invece, la visita del ministro degli Esteri siriano in Arabia Saudita, ed è la prima dal 2011 a oggi. Ci sono molte aspettative per questo. La società siriana è divisa tra coloro che sono a favore e contro il presidente e le divisioni si vedono anche nel giudizio su questo evento. La Siria, però, oltre ad avere bisogno di rientrare nel contesto naturale dei Paesi arabi, da cui manca dal 2011, certamente ha bisogno, per la ricostruzione, dei soldi di questi Paesi, in particolare quelli del Golfo: Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar. Che saranno tra i principali finanziatori accanto alla Cina, alla Russia e ad altri.



Non c’è solo il problema della ricostruzione. Si può risolvere anche quello degli emigrati?

Ci sono 5 o 6 milioni di siriani sparsi tra il Libano, la Giordania e la Turchia, che hanno preso la via dell’opposizione e sono del ramo sunnita. Erano finanziati dall’Arabia e dai Paesi del Golfo. Ora che la Siria si riapre a queste relazioni ci sono speranze in questo senso.

La speranza è che possano rientrare in Siria?

Che rientrino nella loro patria, che però lo facciano rientrando in case dignitose, perché la maggioranza adesso non sono abitabili e necessitano di una ricostruzione o di una ristrutturazione. I soldi possono venire dai Paesi del Golfo. Ecco perché l’eventuale rientro nella Lega araba è positivo non solo dal punto di vista morale e psicologico, ma anche economico e finanziario.

Vorrebbe dire che c’è una prospettiva concreta di ricostruzione?

Sì, a condizione però che gli Usa contribuiscano a togliere le sanzioni, perché riguardano ogni associazione, ditta, organismo che collabora con il Governo di Assad. La speranza è che questi Paesi arabi, una volta riallacciati i rapporti con la Siria, facciano pressione per mettere da parte le sanzioni internazionali, altrimenti ci ricadono anche loro. Che facciano un passo con Stati Uniti ed Europa per toglierle definitivamente. Non si può fare una ricostruzione seria della Siria senza aver tolto le sanzioni.

Visto che questa nuova situazione è una conseguenza del riavvicinamento tra Arabia saudita e Iran, voluto dalla Cina, gli americani potrebbero fare ancora resistenza?

È vero, ma nella politica non c’è niente di stabile. Può darsi che gli Usa, messi un po’ fuori gioco, cambino strategia. Con una firma bloccano tutto e con un’altra firma possono sbloccare tutto.

Potrebbero far fruttare a loro vantaggio la situazione anche gli Usa?

Sì, anche a livello economico e politico. In Siria hanno tentato in ogni modo (armi, jihadisti) di cambiare la situazione, ma non hanno raggiunto i loro obiettivi. E allora può essere tempo di cambiare strategia, tattica.

Ma dal punto di vista interno, rispetto alle fazioni pro o contro Assad, c’è un possibile riavvicinamento tra le parti o siamo ancora al muro contro muro?

Sono ancora muro contro muro perché siamo caduti in questa radicalizzazione. Un grosso lavoro da fare, oltre a ricostruire le mura nel Paese, è quello di ricostruire la fiducia tra le due parti. La Siria è spezzata tra oppositori e sostenitori del regime e in una società spaccata c’è bisogno di un processo lungo e lento, con persone esperte nel riappacificare le fazioni, intervenendo dove c’è sangue, dove c’è una lacerazione tra gli uni e gli altri. Un processo molto più complesso di quello per trovare fondi che sostengano la ricostruzione. Per interesse è facile trovare qualcuno che voglia guadagnare un po’ di soldi: apre una società e ci guadagna. Il problema è chi lavora negli animi, nell’interiorità, nella società spezzata e frantumata dall’odio religioso o politico. Lì si gioca il futuro della Siria.

Chi possono essere gli attori di questa rappacificazione?

Anche noi come Chiesa, come francescani, dobbiamo e possiamo dare il nostro contributo. Fa parte della nostra spiritualità, di cristiani ma anche di francescani, di costruire ponti di dialogo, di rispetto, di collaborazione, ma anche di perdono. Se non si perdona di vero cuore non si può guardare al futuro. Rimarremmo sempre attaccati alle ferite del passato. Ferite aperte senza essere mai risanate.

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