Sono le eredi dei martiri di Tibhirine, di quegli Uomini di Dio che, pur sapendo di essere gravemente in pericolo di vita, scelsero di rimanere nel loro monastero sui monti dell’Atlante, in Algeria, tra la popolazione musulmana che li amava e li rispettava, con la quale condividevano problemi e preoccupazioni. Stiamo parlando delle quattro Trappiste della stretta osservanza, le italiane Marta, Marita, Mariangela e Adriana, che, per non lasciar cadere invano il sacrificio dei sette confratelli, nel 2005 decisero di lasciare il monastero di Valserena, in Toscana, per andare a costruirne un altro in Siria, ad Azer, ai confini con il Libano.
A loro, nel 2017, si è aggiunta l’angolana Adelaide. E tutte hanno chiara una sola cosa: il committente del monastero in Siria è Dio, non sono loro, povere donne, perché, come ammette senza alcun problema la superiora madre Marta Luisa Fagnani, sarebbe un’iniziativa da matti, se non fosse la decisione di un Dio pazzo d’amore per gli uomini.
Proprio per questo motivo il monastero di Azer è stato costruito grande, capace di ospitare 20 persone, e bello, realizzato con le pietre e i materiali del posto. È un luogo di pace e serenità per tutti. E il Meeting per l’amicizia tra i popoli di Rimini ha dedicato a loro la grande mostra dal titolo Azer. L’impronta di Dio. Un monastero nel cuore della Siria, una mostra affollata di visitatori tutti i giorni della 44esima edizione del Meeting dedicata al tema L’esistenza umana è un’amicizia inesauribile. Il Sussidiario ha incontrato proprio al Meeting la superiora madre Marta che, alla domanda su com’è nata l’idea di costruire un monastero in Siria, ha indicato il punto d’inizio nella morte dei sette confratelli di Tibhirine.
Cosa avete riscoperto attraverso il loro sacrificio?
La loro vita, l’amore a Cristo in un Paese dove i cristiani sono minoranza. Abbiamo ammirato la loro fede vissuta con la radicalità che l’essere minoranza richiede e, nello stesso tempo, con apertura al contesto umano in cui vivevano. Perciò, il nostro ordine ha raccolto il loro esempio e la nostra comunità di Valserena si è sentita di assumerne l’eredità. È iniziato un lungo cammino che, attraverso segni della Provvidenza e indicazioni di amici religiosi, ci ha portato a pensare alla Siria come terra di costruzione di un nuovo monastero trappista. Desideravamo rimanere nel contesto del Mediterraneo.
La Siria vi era totalmente sconosciuta?
Gli inizi sono stati un po’ difficili e una grande grazia, perché per 5 anni e mezzo abbiamo vissuto ad Aleppo, in un normale condominio, in un appartamento, approfittando della chiesa di altre suore, che ci hanno accompagnato. Ma questo, grazie a Dio, ci ha permesso di entrare nella vita normale della Siria, imparare la lingua, fare la spesa, conoscere la vita delle varie Chiese, la condivisione che c’è tra tutti i riti cristiani presenti nella città, consentendoci di entrare nella cultura, nella vita del Paese che è diventato la nostra terra, perché con il voto di stabilità abbiamo scelto un luogo che è il nostro e lo sarà, se Dio lo vorrà, fino alla morte.
Come avete cercato il luogo dove costruire il monastero?
Su indicazione di un sacerdote abbiamo trovato il terreno in una zona semplice, rurale, in cui vivono musulmani alawiti e sunniti, ma ci sono anche due piccolissimi villaggi cristiani, maroniti. È un sito facilmente raggiungibile da tutta la Siria.
Un luogo collinare, all’epoca incolto.
Il basso costo del terreno ci ha permesso di acquistare 100mila metri quadrati, perché l’idea, come per tutti i monasteri benedettini, è di poter offrire a tutti uno spazio di serenità, di bellezza, di pace. Non c’erano piante, non c’era la strada, ma solo qualche ulivo abbandonato.
Ma avete pensato a un grande monastero capace di ospitare 20 persone.
Sin dall’inizio abbiamo voluto vivere la vita monastica regolare, iniziando a elaborare un progetto che è in gestazione da 18 anni, ma sono già stati costruiti la strada d’accesso, la chiesa, il chiostro, il monastero, le casette per l’ospitalità, il giardino ricco di fiori e alberi, l’impianto fotovoltaico da 80 chilowatt e qualche edificio di servizio.
Quando avete iniziato a vivere ad Azer?
A settembre 2010, prima seguivamo i lavori arrivando e tornando ad Aleppo.
Pochi mesi dopo è scoppiata la guerra.
A marzo 2011 è scoppiata in modo violento la guerra, che ha anche bloccato la costruzione del monastero. Però, anche durante la guerra, abbiamo potuto dar lavoro agli operai, utilizzando le pietre locali, costruendo strade e muretti di sostegno, e dal 2014, quando la guerra si è un po’ calmata, abbiamo avuto richieste di persone che volevano vivere con noi alcuni giorni. Perciò, con le pietre locali e grazie alla maestria degli operai del posto, abbiamo costruito delle casette semplici, ma belle, per l’ospitalità.
Qual è stato il percorso di questi anni?
In questi anni abbiamo fatto un percorso d’amicizia con la gente del posto, con l’ingegner Alberto Mazzucchelli e la sua équipe, che ci hanno aiutato a elaborare le idee progettuali, con Banco Building, che ci ha offerto 2mila metri quadrati di pannelli solari, consentendoci di proseguire i lavori, occupando operai locali. Ma le persone vengono da noi anche per caricare i cellulari, per lavorazioni impossibili senza la corrente elettrica, prestiamo il nostro forno, nei frigoriferi ospitiamo gli alimenti che le famiglie altrimenti dovrebbero buttare, diamo l’acqua potabile del pozzo profondo 100 metri che abbiamo costruito, perché l’acqua del villaggio non è sana e si sono verificati casi di colera. E poi, oltre ai 2mila metri quadrati di pannelli fotovoltaici regalati da Banco Building ai villaggi della zona, anche musulmani, abbiamo aiutato le comunità locali ad acquistarne altri.
Si può dire che siete stata la prima comunità energetica in Siria?
È un po’ eccessivo, ma all’inizio il nostro impianto era il più grande in Siria e gli amici ingegneri di Damasco hanno pubblicizzato la nostra opera, incoraggiando tanti a percorrere questa possibilità. E poi le comunità cristiane hanno aiutato le famiglie a installare pannelli.
Da voi vengono anche i musulmani?
Sia cristiani che musulmani, perché è un posto bello, segno di armonia, di un’umanità non sfigurata. Le loro visite al monastero non rappresentano un’evasione, ma lo scoprire che la bellezza è possibile oggi, nella semplicità, anche dove c’è una tragedia. Perciò, nelle costruzioni cerchiamo d’impiegare le cose più semplici che il posto offre, le pietre del terreno, le ceramiche disponibili. Si tratta di piccole cose, come scegliere i colori adatti, tener pulito, raccogliere la spazzatura, quindi ciò che è possibile fare nel quotidiano, ma che fa bene al cuore. Nella semplicità possiamo non farci dominare dalla logica della distruzione e della trascuratezza.
Perché siete rimaste in Siria nonostante 12 anni di guerra?
La guerra è stata ed è tuttora disastrosa. Ha distrutto le infrastrutture, il contesto umano di grande convivenza. Nel 2005 abbiamo trovato una Siria aperta, nella quale convivevano pacificamente, in un grande rispetto reciproco, comunità di culture e popoli diversi. La guerra ha profondamente ferito e impoverito questa realtà. Basta dire che nel 2005 la comunità cristiana, comprendendo tutti i riti, incideva per il 10% della popolazione, mentre oggi è scesa a meno dell’1,5%. Noi vediamo la continua emorragia migratoria dei nostri giovani, delle famiglie, ma anche dei musulmani, in particolare di professionisti, medici, ingegneri, meccanici e operai specializzati, con grande impoverimento del Paese.
I combattimenti hanno interessato anche la vostra zona?
I villaggi attorno a noi sono stati gravemente danneggiati dalla guerra. Però, gli uomini che sorvegliavano le loro case hanno protetto anche il monastero. Così pure i militari, che ci hanno sempre rispettato e il monastero non ha subìto danni. La comunità di Valserena ci ha sostenute, capendo che era importante restare, e ognuna di noi è stata libera di scegliere; abbiamo condiviso la scelta di restare, ci siamo ritrovate più unite tra di noi e con la popolazione locale.
La vostra alla fine non è un’esemplificazione concreta del titolo del Meeting di quest’anno?
Noi siamo le prime a beneficiare dell’amicizia, siamo accolte dalla popolazione locale, siamo ospiti e godiamo del rispetto. Però, l’amicizia viene da Dio, è Dio che è l’amico degli uomini, le nostre forze non bastano. L’amicizia ha radici profonde, viene dall’essere fatti a immagine di Dio, che è un Dio di comunione. È questo che ci rende capaci, con il cuore aperto per incontrare l’altro, per poter vivere le nostre vicende in relazione e in apertura all’altro. E in Siria possiamo vivere tutto ciò in un modo particolare, perché i cristiani e i musulmani in Siria vivono ancora in relazione a Dio, la vita è ancora percepita in relazione ad un Assoluto. Perciò è facile incontrarsi, perché sappiamo che veniamo da qualcosa di più grande di noi ed è su questo che, senza discorsi e senza teologie del dialogo, viviamo insieme, ci rispettiamo come creature di Dio.
Dalla mostra si percepisce, del resto voi lo dite, che il committente del monastero è Dio.
Per noi la Siria è una chiamata nella chiamata. Nessuna di noi è entrata in monastero a Valserena pensando di fare una fondazione in un Paese del Medio Oriente. Tutto ciò è avvenuto dall’ascolto di ciò che Dio ha seminato, pur nella nostra totale inadeguatezza, sia a livello culturale che a livello delle sfide che percepiamo, perché costruire un monastero dentro una realtà di esodo, dentro una società che si sta impoverendo è realmente qualcosa che solo Dio può fare. Perciò, abbiamo sempre affidato a Lui la nostra presenza in Siria. Abbiamo chiaro che è qualcosa che Dio vuole, abbiamo avuto tanti segni di conferma, come pure sostegni inattesi, arrivati in momenti in cui ci chiedevamo se aveva senso questa “pazzia”, perché un po’ una “pazzia” lo è. Ma il committente è Dio e il monastero, come anche la nostra vita, sono nelle Sue mani.
(Flavio Zeni)
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