“La situazione è complicata e drammatica non tanto e non solo per il terremoto quanto per lo scenario su cui il terremoto si è inserito: la Siria già prima del sisma aveva il 90% della popolazione sotto il livello di povertà, 15 milioni di persone bisognose di aiuto umanitario, di cui 7 milioni nella zona colpita dal terremoto. La tragedia si è inserita in un contesto già devastato”. Danilo Feliciangeli è il coordinatore dei progetti Caritas in Siria e punta subito il dito su quello che è il problema principale: un sisma devastante arrivato dopo un conflitto che lo è stato altrettanto e che ha fiaccato una popolazione stremata da una situazione sempre più sconvolgente. Tanto che il vero problema, oltre al reperimento dei beni materiali, è lo scoraggiamento.
Com’è la situazione in Siria dal punto di vista degli aiuti umanitari?
C’è bisogno di tutto, di assistenza materiale, di prima necessità, dal cibo all’acqua e c’è ancora di più la paura che si possa diffondere l’epidemia di colera che era già in corso. Ma la situazione si è molto complicata dal punto di vista della tenuta psicologica delle persone: il terremoto è stato molto forte e anche chi non ha subito danni gravi ha subito un forte choc che si aggiunge ai traumi derivati da anni di guerra. Aleppo ha subito per diversi anni bombardamenti continui, il sisma ha riportato alla mente quei ricordi, quel periodo: ci sono ancora tantissimi sfollati che potrebbero rientrare nelle loro abitazioni ma per la paura dormono ancora in macchina o in centri collettivi. Il peso dell’aspetto psicologico è segnalato da tutti, purtroppo, come una novità: non era mai stato visto neppure dai colleghi del posto come una priorità.
Ne hanno subite troppe, insomma, e rialzarsi in queste condizioni non è facile.
Proprio oggi stavo parlando con un ragazzo che mi ha detto: ”Guarda, noi siamo dei sopravvissuti a tutto, e ormai siamo diventati come un blocco di cemento inerte, senza più speranze, aspirazioni. Sì, ci siamo, siamo qua, ma senza un minimo di luce, di umanità”. La sensazione è veramente di un popolo che ne ha subite troppe.
Gli aiuti riuscite a reperirli sul posto o arrivano da fuori?
Qui si trova quasi tutto, magari non le apparecchiature tecnologicamente più avanzate, le apparecchiature mediche più sofisticate, diagnostiche, o non si trovano i pezzi di ricambio: in alcuni settori c’è un problema di reperimento ma non per i generi di prima necessità. Il problema principale sono le risorse finanziarie: avendo i soldi tutto, o almeno l’indispensabile, si trova, si riescono a fornire le cure mediche. Non è un problema fare arrivare gli aiuti, almeno nella parte controllata dal Governo; la situazione è diversa nella parte di Idlib, che è fuori dal controllo governativo e anche noi come Caritas non riusciamo a lavorarci per motivi di sicurezza.
A Idlib il territorio da chi è controllato?
È in mano a diverse formazioni anche terroristiche, alcuni gruppi di ribelli, milizie di ogni tipo, quindi per motivi di sicurezza molte organizzazioni non ci lavorano. Purtroppo quella è la zona che è stata più colpita dal terremoto, dove ci sono stati più morti e distruzioni. Lì la situazione è più grave, sarebbe necessario un intervento più ampio anche a livello di Nazioni Unite, con convogli umanitari garantiti.
Ma il cibo almeno è disponibile o c’è chi non ha da mangiare?
C’è gente che fa la fame ma c’era anche prima del terremoto, ma il problema, appunto, non è che il cibo non ci sia, è che bisogna portarlo da fuori.
Chi pensa di dare una mano, quindi, è meglio che mandi soldi?
Assolutamente sì. Primo perché è più difficile fare arrivare materiali da fuori che fare arrivare i soldi, sia per problemi logistici, perché diventa più costoso, sia per un problema relativo alle sanzioni o al passaggio tra varie dogane. Nonostante le sanzioni internazionali, i fondi per l’aiuto umanitario in Siria riescono ad arrivare. Abbiamo comprato già materassi, coperte, cibo, acqua. Tutte cose acquistate in loco aiutando il mercato locale.
Ci sono strutture approntate per ospitare le persone?
Ci sono strutture comunitarie, adesso sono circa 400 tra saloni parrocchiali, palestre, scuole ed edifici di questo tipo. Tanti prima del terremoto vivevano in campi profughi, se parliamo degli sfollati del terremoto la maggior parte stanno in questi shelter, centri temporanei in cui magari dormono e basta. Moltissimi dormono in macchina, nei parcheggi, all’aperto, in piazzali. Ci si ritrova tutti lì e la sera si passa in macchina.
Qual è il vostro progetto?
Stiamo lavorando su un piano di almeno tre anni, che stiamo definendo proprio in questi giorni, sulla riabilitazione sociale ed economica. Vogliamo sicuramente lavorare sul piano psicologico, con attività che riusciremo a mettere in piedi sulla base di esperienze già fatte. Pensiamo ad attività per i giovani, per i bambini, che sono quelli che ovviamente hanno subito di più questo choc. Fra un paio di settimane inizieremo con attività di riabilitazione economica e assistenza medica, di cui, purtroppo, c’è tanto bisogno.
Una riabilitazione economica con quali obiettivi?
Far sì che possano riprendere le attività che sono state danneggiate dal terremoto: piccole officine, laboratori artigianali, esercizi commerciali. E per l’occasione, come cerchiamo di fare sempre in queste tragedie, cerchiamo di creare nuove opportunità. Chi ha la possibilità o l’idea di avviare una piccola attività economica può essere aiutato sia con la formazione che con un finanziamento iniziale. Tutti progetti che facevamo anche prima in altri contesti. Ora la situazione si è aggravata, però abbiamo già l’esperienza e lo staff preparato.
(Paolo Rossetti)
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