La Slovacchia è stata uno dei paesi che erano riusciti a contenere in maniera esemplare il Coronavirus durante la prima ondata, tra marzo e maggio dello scorso anno. Grazie a misure drastiche e tempestive come ad esempio l’obbligo di quarantena per chi viaggiava verso il piccolo paese centroeuropeo, le autorità avevano tenuto il contagio a livelli bassissimi, evitando di creare problemi a un sistema sanitario martoriato dall’incuranza del governo di Robert Fico, premier appoggiato nel decennio precedente da un gruppo di oligarchi che hanno potuto fare il bello e il cattivo tempo fin troppo a lungo: solo le reiterate proteste organizzate dal movimento “Per una Slovacchia Dignitosa” (Za slušné Slovensko), a seguito dell’omicidio del giornalista investigativo Ján Kuciak e della sua fidanzata Martina Kušnírová avrebbero costretto alle dimissioni Fico, che poi sarebbe uscito sconfitto dalle successive elezioni parlamentari.



Il successo delle misure slovacche è durato fino all’estate, quando il governo del neoeletto premier Igor Matovič ha progressivamente rilassato le misure, perdendo poi il controllo della situazione nei mesi successivi. Un po’ per inesperienza, un po’ per paura di perdere consensi e un po’ anche grazie a una massiccia campagna di disinformazione messa in atto dai partiti di Fico e dei neofascisti slovacchi, Matovič ha operato delle scelte poco coraggiose che hanno contribuito a portare i contagi su livelli drammatici, mettendo in ginocchio il sistema sanitario e facendo aumentare vertiginosamente il numero dei morti per milione di abitanti.



In questo contesto drammatico, però, è nata un’iniziativa che vale la pena raccontare. Nelle province più orientali del paese diversi sacerdoti sono intervenuti per assistere il personale sanitario in difficoltà negli ospedali. Nel tempo le adesioni sono aumentate e questo ha mostrato al paese un’altra dimensione possibile in questi tempi drammatici: quella della solidarietà e della compassione. Abbiamo chiesto a don Martin Harčár, cappellano del Centro per la Pastorale Universitaria all’Università di Prešov, di raccontarci la sua esperienza in prima linea nei reparti Covid.

Grazie, don Martin, per avere accettato di parlare con ilsussidiario.net. Come è nata questa iniziativa e come è organizzata la vostra attività?



Tutto è iniziato con l’introduzione del lockdown in Slovacchia lo scorso 8 gennaio. Abbiamo iniziato in quindici, ci siamo offerti volontari per aiutare nell’Ospedale universitario “J.A. Reiman” di Prešov. Cinque di noi aiutano direttamente nel reparto Covid, gli altri si dividono compiti come smistamento dei materiali dal magazzino, misurazione della temperatura all’ingresso dell’ospedale o assistenza a pazienti e visitatori con indicazioni e informazioni sui vari reparti. Nel reparto Covid copriamo un turno di 8 ore al giorno, dalle 7:30 alle 15:30, sei giorni su sette. Ciascuno di noi ha in carico un piano, che significa circa una quarantina di pazienti.

Qual è la cosa più difficile che si è trovato ad affrontare?

Personalmente, il dovermi abituare al movimento e al lavoro con addosso lo “scafandro”. Capire quanto bere la mattina, per restare idratato tutto il giorno sapendo che non potrò andare al bagno per le 8 ore successive. Poi anche abituarmi alla quantità tremenda di sudore che cola progressivamente fin sulle protezioni delle scarpe. Inizialmente mi ritrovavo ad avere freddo verso la fine del turno per quanto ormai erano bagnate le mie calze… Poi, dopo il terzo giorno, il buon Dio mi è venuto in soccorso. La notte successiva mi svegliai perché mi era parso di sentire una voce che mi diceva “la lana è l’unico materiale che riscalda anche quando è bagnato!”. Mi ricordai in quel momento di un soccorritore alpino che conoscevo e che spiegava come il suo team vestisse sempre indumenti di lana, perché appunto riscalda anche quando è bagnata. Così, da quando porto le calze di lana, pur sudando, rimango comunque al caldo. È stato anche difficile capire come respirare nella mascherina senza far appannare gli occhiali; ed è tremendo non potersi grattare quando hai qualche prurito al viso. E ancora: dover cambiare spesso i guanti, evitare contatti non necessari con i pazienti… Salire le scale, poi, è come scalare una montagna: spesso devo fermarmi a recuperare il fiato. Ma probabilmente la cosa più difficile è alzarsi il sesto giorno, quando la stanchezza accumulata è tantissima.

Come reagiscono alla vostra presenza i medici, gli infermieri e i pazienti?

Devo dire che per me è un grande onore poter aiutare queste persone: sono dei veri eroi. Medici e infermieri lavorano su turni massacranti, anche perché si ritrovano a volte a coprire i turni dei colleghi contagiati. Lavorare così a lungo con addosso tutti i dispositivi di protezione è una cosa che può capire solo chi l’ha provata. E nonostante tutte le difficoltà che devono affrontare non solo al lavoro ma anche a casa, ho sempre visto il personale comportarsi con la massima professionalità e dedizione: sempre attenti ai bisogni dei pazienti e dei loro familiari. La compassione che esprimono è evidentemente genuina. Hanno la mia più sincera ammirazione e credo che come sacerdoti dovremmo prendere esempio da loro.

Come siete stati accolti?

Con entusiasmo. Si sono sentiti confortati dal fatto che ci fosse qualcuno ad aiutarli a supportare e confortare pazienti spesso disperati e spaventati. I carichi di lavoro attuali non gli permettono di dedicare ai pazienti tutta l’attenzione e la cura che vorrebbero. Quindi noi facciamo quello che possiamo in quelle otto ore in cui siamo presenti, senza mai fermarci, proprio come loro. Aiutiamo a distribuire i pasti e i medicinali, diamo da mangiare a quelli che non riescono a fare da soli; liberiamo i piani dai rifiuti contaminati; cambiamo la biancheria ai pazienti e li accompagniamo a fare gli esami… Tutte cose che normalmente farebbero i sanitari, ma ora è impossibile.

Immagino che oltre a questo, vi venga chiesto anche di portare conforto spirituale.

Naturalmente. Per chi lo chiede, siamo sempre disponibili per la confessione o per due parole su questioni spirituali. Alcuni di questi eroi si sono riavvicinati alla confessione e all’eucaristia dopo tanto tempo. L’isolamento che sperimentano nel quotidiano è molto peggiore di quello che dobbiamo affrontare noialtri. La gente sa che lavorano con i pazienti Covid e li evita senza troppi complimenti. E quindi noi siamo per loro una spalla su cui poter piangere: molte delle storie da brividi che ci sono state raccontate ce le porteremo nella tomba, per il segreto confessionale. Ma per loro che raccontano è un sollievo trovare finalmente qualcuno che ascolti e soprattutto comprenda quello che stanno passando: siamo nella stessa barca e facciamo le stesse esperienze. Loro si dedicano al 100 per cento al servizio agli altri e sono felici di avere qualcuno che dedichi invece del tempo ad aiutare loro.

Quindi la vostra presenza ha sicuramente un effetto positivo.

Sicuramente. Medici e infermieri dicono che da quando ci siamo noi l’atmosfera nel reparto è cambiata. Che abbiamo portato un po’ di calore, luce e speranza in un luogo che era troppo segnato dall’oscurità dovuta all’esperienza quotidiana del dolore e della morte. Anche i pazienti sono molto contenti: la nostra presenza gli porta la speranza che, con l’aiuto di Dio, potranno forse sconfiggere questa orribile malattia. Molti hanno colto l’occasione per riconciliarsi con Dio, dopo tanti anni. Altri sono contenti di poter ricevere l’eucaristia in un periodo in cui le chiese sono chiuse. Sono sacerdote da 22 anni e non mi era mai capitato di avere a che fare con una simile sincera devozione e felicità nel ricevere il Santissimo. Giovani o anziani, non fa differenza. Purtroppo, non mancano anche quelli che invece ci allontanano, a volte con maleducazione. “Lasciatemi in pace. Non sono moribondo”. Triste.

Parliamo un po’ delle condizioni del sistema sanitario. Come vede lei la realtà slovacca durante questa emergenza?

Purtroppo, devo constatare che in Slovacchia siamo molto indietro rispetto a quello che ho potuto vedere in prima persona in paesi come l’Italia, la Francia, la Germania o l’Austria. Gli edifici sono fatiscenti: spesso mancano cose come tapparelle o climatizzazione. Muovere pazienti e materiali è complicato dalle barriere architettoniche. Molti letti versano in condizioni drammatiche. La tecnologia, se c’è, è obsoleta e complica molto il lavoro del personale. Io addirittura ho dovuto chiedere in prestito delle penne per poter prendere nota dei pazienti che assisto, perché le uniche tre penne disponibili nel reparto le usano ovviamente le infermiere. Le mascherine in dotazione sono così sottili che ne indossiamo due per volta, per proteggerci meglio. La burocrazia che devono affrontare i medici è così gravosa che quei poveretti sono costretti a passare più tempo davanti al computer che non ad assistere i pazienti. Delle differenze negli stipendi rispetto ai colleghi degli altri paesi meglio che non parli nemmeno. Anche per questo credo che i nostri medici meritino ammirazione e rispetto, perché di fatto una buona parte del lavoro che svolgono non viene riconosciuto finanziariamente. Queste condizioni drammatiche, che io vedo come persona del tutto esterna alla realtà sanitaria, sono però controbilanciate dalla flessibilità, competenza e dall’approccio umano del personale.

Può raccontarci un episodio, qualcosa che l’ha particolarmente colpita nel corso di questa sua esperienza in reparto?

Ho in mente un signore anziano di 96 anni, ex-allievo salesiano. Sempre gentile, sorridente ed estremamente cortese. Si vedeva che aveva una disposizione spirituale molto robusta. Era sempre felice di poter ricevere l’eucaristia e subito dopo la Comunione voleva rimanere in silenzioso raccoglimento. Non era più in grado di mangiare da solo, lo aiutavo io, e lui faceva sempre attenzione a non sporcare, per non caricare di ulteriore lavoro il personale sanitario. Non l’ho mai sentito lamentarsi: né del cibo, né del dolore, e nemmeno della scomodità quando aveva bisogno che gli fosse cambiata la biancheria. Lo trovavo spesso a mani giunte, evidentemente raccolto in preghiera, una cosa di cui comunque non si vantava. Ogni volta che qualcuno entrava nella sua stanza interrompeva la preghiera e dedicava tutta la sua attenzione alla persona appena arrivata. Un giorno, alla fine del mio turno, scherzando un po’ l’ho salutato dicendo “Stia in gamba, e se non dovessimo più vederci, porti il mio saluto in paradiso”. Lui ha sorriso e ha risposto “D’accordo! Sarà fatto”. Ho poi salutato infermieri e medici e mentre mi avvicinavo all’ascensore ho avuto come un presentimento, e sono tornato nella sua stanza, appena in tempo per vederlo spirare silenziosamente, con il volto disteso. Era già andato a portare il mio saluto, come promesso! Così, mentre medici e infermieri facevano il loro dovere, io facevo il mio: mi sono messo a recitare il rosario accanto a lui. Un’infermiera che lo conosceva ha detto semplicemente: “È morto esattamente come era vissuto. Negli ultimi anni andava ogni giorno dai Salesiani per partecipare alla santa Messa e faceva sempre la comunione. Dio lo ha premiato così, mandando Lei ad assisterlo in modo che non spirasse senza ricevere il Santissimo. Penso che se anche Lei fosse stato mandato qui solo per questo, ne sia valsa la pena”. Poi mentre lo cambiavano ho notato che aveva una grande ferita alla gamba sinistra: era stato da poco operato all’anca e la ferita non si era ancora rimarginata. Doveva soffrire tantissimo e nonostante questo era sempre tranquillo, gentile e immerso nella preghiera. Vorrei anche io poter avere tanta dignità nella morte.

C’è un messaggio particolare che vorrebbe lasciare ai nostri lettori?

I Sioux hanno un proverbio che dice: “Prima di giudicare qualcuno, cammina tre lune nei suoi mocassini”. Vi prego, non mettete in discussione le richieste che vengono fatte dai medici e dal personale sanitario, se non avete almeno provato ad aiutarli indossando lo scafandro nei reparti, con tutta la burocrazia, il dolore, la morte e l’impotenza con cui hanno a che fare. È tremendamente frustrante. Vi invito a provare a offrire il vostro aiuto come volontari nei reparti Covid. Andate a testimoniare l’eroismo quotidiano di medici e infermieri: avrete le stesse protezioni che hanno loro e potrete rendergli la vita meno complicata, senza avere sulle vostre spalle il peso della responsabilità delle vite dei pazienti come hanno loro. Pregate con le parole del Salmo 91: “Chi abita al riparo dell’Altissimo […] non temerà la peste che vaga nelle tenebre, lo sterminio che devasta a mezzogiorno”. E se non vi sentite abbastanza coraggiosi per farvi avanti, pregate almeno per i medici, gli infermieri e tutti gli altri che lavorano in prima linea, fossero anche solo addetti alle pulizie. Rispettateli. E per citare il libro del Siracide: “Onora il medico per le sue prestazioni, perché il Signore ha creato anche lui, non stia lontano da te, perché c’è bisogno di lui”.

(Raffaele Magaldi)

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