A quasi tre anni dall’ultima volta, con moglie e figli siamo finalmente riusciti a tornare in Slovacchia, per due settimane di vacanza che soprattutto a causa del Covid non avevamo potuto realizzare prima. Finalmente avremmo rivisto il ramo slovacco della famiglia, i ragazzi avrebbero potuto riallacciare i rapporti con i cugini, e io avrei potuto approfondire il mio lavoro di ricerca sui testimoni del regime comunista, i perseguitati, quegli eroi silenziosi le cui storie dicono ancora tanto oggi, anche a noi che quel regime non lo abbiamo vissuto (soprattutto perché non lo abbiamo vissuto).



Un paio di settimane prima della partenza mia moglie ha avuto un’idea: perché non provare a dare una mano ai volontari che offrono assistenza ai profughi ucraini in fuga dalla guerra? Vedendo il grande entusiasmo che traspare dalla pagina internet e dai profili social dell’organizzazione non abbiamo esitato, né io né i ragazzi, a dire di sì. E Così abbiamo modificato l’itinerario iniziale per poter trascorrere due giorni nel Vkc (Veľkokapacitné Centrum, Centro di accoglienza ad alta capacità) di Michalovce.



Ai volontari viene offerto vitto (tre pasti, direttamente al Centro) e alloggio. Nel nostro caso, l’organizzazione ha messo a disposizione una stanza spaziosa in una delle case per pellegrini del Centro pastorale di Vysoká nad Uhom, il luogo di nascita e martirio della beata Anna Kolesárová, la sedicenne uccisa da un soldato dell’Armata Rossa nel 1944 per non essersi voluta concedere sessualmente.

I profughi arrivano a Michalovce dopo aver varcato il confine a Vyšné Nemecké, un piccolo villaggio sulla strada che collega la Slovacchia con Uzhorod in Ucraina. Un altro gruppo di volontari assiste le forze dell’ordine nello sbrigare le pratiche burocratiche necessarie a far proseguire gli sfollati da questa parte del confine.



Sia a Vyšné Nemecké che a Michalovce i volontari lavorano su due turni di 12 ore ciascuno, 7-19 e 19-7. Il governo slovacco, tramite il ministero dell’Interno, si limita a fornire personale del corpo di Polizia per garantire l’ordine, o, al limite, risorse materiali laddove le donazioni non dovessero soddisfare una determinata necessità. Per il resto, l’organizzazione e il coordinamento delle attività sono gestite interamente da volontari che fanno principalmente capo ai movimenti Scout della Slovacchia o a esponenti delle varie diocesi cattoliche (soprattutto quelle di rito bizantino, per l’ovvia prossimità culturale con la maggior parte dei credenti ucraini). Nel Centro è anche presente una tenda per l’assistenza medica, e un gruppo di giovani psicologi e psicologhe garantisce supporto psicologico a profughi che si trovino in situazioni particolarmente delicate. Un piccolo miracolo quotidiano è la presenza costante di qualcuno che parla correttamente la lingua ucraina, cosa tutt’altro che scontata.

La determinazione con cui i volontari affrontano qualsiasi compito gli venga affidato è ammirevole: non importa si tratti di aiutare a servire i pasti, consigliare i profughi sulle varie opzioni per raggiungere, se possibile, la destinazione desiderata, cambiare i sacchi della spazzatura, pulire le toilette chimiche o aiutare le giovani mamme in qualsiasi necessità concreta si trovino ad avere: nei due giorni in cui abbiamo dato il nostro (piccolo) contributo, abbiamo sempre visto gente sorridente, che donava e si donava con una gratuità e una spontaneità che fanno bene al cuore e all’anima e sono, inevitabilmente, contagiose.

Ma siamo stati colpiti in ugual misura dal dramma dei profughi e da certi particolari che quel dramma lo raccontano in tutta la sua gravità.

Nelle famiglie o nei gruppi con bambini, ad esempio, è sempre evidente come questi influenzino l’umore degli altri: se i bambini sono spaventati o preoccupati, l’ansia negli occhi dei genitori è evidente e angosciante. Ed ecco che i volontari si prodigano immediatamente per far giocare i bambini. L’umore cambia, e con esso anche lo sguardo degli adulti, ora determinati ad occuparsi delle faccende pratiche necessarie a fare i prossimi passi verso una destinazione che magari ancora non conoscono nel dettaglio, ma che è l’unica possibilità, l’unica direzione in cui possono realmente muoversi.

Al Vkc arrivano anche gruppi di bambini che gioiscono nel ritrovare alcuni amici: un altro piccolo raggio di luce che aiuta a rasserenare, per quanto possibile, l’animo degli adulti che li accompagnano. Per alcuni ragazzini forse questa fuga forzata rappresenta anche un’avventura; altri ancora la prendono come una responsabilità e si attivano per essere di aiuto alle madri, zie e nonne che accompagnano nel viaggio.

Noi abbiamo avuto modo di prestare servizio nella tenda che fungeva da cucina e refettorio, in quella in cui venivano fornite informazioni concrete sulle possibilità di trasporto verso le destinazioni assegnate o desiderate, e in quella in cui i profughi potevano passare la notte e le mamme con neonati provvedere alle necessità fondamentali dei propri piccoli (allattamento, fasciatura, cambio del pannolino, ecc.). Oltre a questo, abbiamo dato una mano con le pulizie generali del Vkc. Ma quello che abbiamo visto fare agli altri ci ha ispirati e ci ha dato forza e speranza.

Le giovani psicologhe che seguono donne e ragazze visibilmente traumatizzate riescono a volte a strappare un abbraccio o un mezzo sorriso che subito si riflette sui loro volti stanchi e provati. I volontari che forniscono assistenza al trasporto si trovano spesso a dovere spiegare le stesse cose, mostrando gli stessi itinerari, a gruppi più o meno numerosi di persone che in molti casi appaiono deluse da quanto gli viene proposto. Spesso, però, una volta giunti alla stazione ferroviaria di Michalovce (dove altri volontari, sulla base delle informazioni trasmesse dal Vkc, provvedono ad acquistare i biglietti, aiutando i profughi a prendere posto sui treni e in alcuni casi facendo parte del viaggio insieme a loro), si lasciano finalmente andare a un sospiro di sollievo, ringraziando chiunque capiti vicino.

La sera del primo giorno, che ci dicono essere stato il più movimentato delle ultime tre settimane, siamo stanchi ma non vediamo l’ora che passi la notte per poter tornare al Vkc. Il secondo giorno è molto più tranquillo del primo e ci permette di osservare di più, e meglio, certe situazioni cariche di significato. Come la madre che, al risveglio nella tenda di accoglienza generale, rifà con cura il letto in cui ha appena dormito, pur sapendo che il lenzuolo, la coperta e il cuscino verranno cambiati dai volontari appena lei se ne andrà, e la branda disinfettata. È un gesto semplice quanto forte, che sembra voler testimoniare un desiderio di dignità cui non si può rinunciare.

Poi ci sono i bambini che ringraziano le volontarie che li avevano fatti giocare all’aperto, per svariate ore, mentre attendevano l’autobus che li avrebbe portati alla stazione ferroviaria. La naturalezza con cui uno di loro, seduto in fondo, cerca l’attenzione di qualcuno fuori, picchiando sul finestrino, per poi passare a quello davanti, e a quello avanti ancora, fino ad arrivare alla porta anteriore del bus, ancora aperta, per poter gridare il nome della volontaria (“Lucka!”), catturandone finalmente l’attenzione. “Spasiba!”. Grazie! E quanta riconoscenza in quel grido di sincera gratitudine.

Così, arrivati quasi alla conclusione della seconda giornata, ci scopriamo “poveri” perché ci sembrano, a questo punto, pochi i due giorni che abbiamo potuto passare qui. Ma prima che il turno finisca, un misterioso scatolone viene recapitato alla tenda dell’accoglienza. Aprendolo, scopriamo un calciobalilla di ottima qualità, che subito provvediamo a montare. Intanto, nella calma generale, una madre fa il suo ingresso nella tenda insieme al figlio adolescente. Lo sguardo della donna è perso, come se non mettesse bene a fuoco: il figlio la aiuta a raggiungere due brande vicine, dove la madre si ferma e chiude gli occhi per qualche minuto. Sembra piangere, silenziosamente e senza lacrime: il figlio la abbraccia e allora lei si ricompone e si rialza, gli dice qualcosa e, sempre con lo sguardo assente, esce dalla tenda. Dopo qualche minuto, il calciobalilla è montato e funzionante e i volontari iniziano a giocarci. Il tempo di una rapida partita e poi ognuno torna ai suoi compiti. Il ragazzino prende coraggio e si avvicina per vedere cosa fosse quell’oggetto misterioso appena abbandonato dai volontari. E chiede a uno di loro di giocare. Il giovane volontario è Max, il nostro figlio minore, che accetta la “sfida”. Irrompe un’improvvisa serenità, grazie ai sorrisi dei due ragazzi che giocano spensierati. Una serenità talmente evidente da far tornare la vita nello sguardo della madre, al suo rientro nella tenda. È una trasfigurazione anche difficile da spiegare a parole, qualcosa che prima non c’era adesso c’è, e il merito è di tutte queste persone che, ogni giorno, lavorano instancabilmente per restituire ai profughi quella speranza e quella forza necessarie per affrontare le difficoltà della loro situazione. Con quella vicinanza e quel sostegno di cui hanno bisogno, per continuare a credere in un futuro migliore.

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