Furono 57 lunghi (lunghissimi) giorni quelli che separarono la strage di Capaci da quella in via D’Amelio, entrambe ordine ed organizzate nei minimi dettagli da Cosa Nostra per colpire due tra le figure più influenti in quel difficile periodo storico: i giudici antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, famosi per il maxi processo che portò all’arresto di numerosi esponenti della mafia siciliana. 57 giorni – dicevamo – nel corso dei quali si sarebbe potuto fare moltissimo per evitare che la strage di Capaci si ripetesse e colpisse (come lo stesso Borsellino aveva intuito e più volte denunciato) in quella tranquilla via D’Amelio dove vivevano sua madre e sua sorella e che lui frequentava almeno una volta a settimana, puntualissimo ogni domenica.



La cronaca di tutto quello che venne dopo gli attentati è ben nota e basta – almeno a livello generale – ricordare che fu un durissimo colpo alle cosche mafiose siciliane; ma oggi che durante il programma Le Iene Inside si tornerà a parlare proprio di Cosa Nostra è nostra intenzione ripercorrere (a grandissime linee) la strage di Capaci e quella in via D’Amelio, restituendo un po’ di dignità alla lotta contro la mafia e a tutte quelle vittime collaterali che affiancavano i giudici per proteggerli.



La strage a Capaci e il ‘bis’ in via D’Amelio 57 giorni dopo: come sono morti i giudici Falcone e Borsellino

Per arrivare in via D’Amelio dobbiamo fare prima tappa a Capaci – a pochi chilometri da Palermo – per la strage che causò la morte di cinque persone (tra Falcone, la moglie e alcuni degli agenti di scorta) e il ferimento di altre 23: uno degli attentati più plateali mai realizzati, organizzato nel minimo dettaglio da Giovanni Brusca, incaricato personalmente dal boss Totò Riina di far cadere la testa di entrambi i giudici. La data è quella del 23 maggio 1992, quando sotto l’autostrada dall’aeroporto siciliano a Palermo – esattamente all’altezza di Capaci – vennero piazzati 500 chili di tritolo: sufficienti sia a causare la strage tristemente nota, sia a far oscillare vorticosamente i sismografi siciliani. La scena che si trovarono davanti i soccorsi era impietosa: l’asfalto era stato completamente dilaniato dall’esplosivo, mentre delle auto di scorta del giudice non rimase nulla se non polvere, lamiere sparse e – soprattutto – cadaveri.



Ma se c’era una cosa che intuì Borsellino dopo la morte nella stage di Capaci del collega e amico Falcone è che preso – prestissimo – lui avrebbe incontrato la stessa sorte: mai, però, si sarebbe immaginato che i mafiosi avrebbero colpito il via D’Amelio. La data (questa volta) è quella del 19 luglio dello stesso anno, in una qualsiasi domenica estiva in cui il giudice – da programma – dopo il pranzo a casa sua si diresse al civico 19 della stradina palermitana dove lo attendeva (come sempre impaziente) sua madre. I chili di esplosivo usati questa volta furono ‘solamente’ 90, innescati dal bagagliaio di una delle tante auto parcheggiate sotto la palazzina; non abbastanza da allertare una seconda volta i sismografi, ma sufficienti per uccidere sul colpo il giudice, cinque dei suoi agenti di scorta e mandare in frantumi tutti i vetri della palazzina.