Un agosto di tensione in Terrasanta, quattro giorni di guerra con Gaza, un attentato nel cuore di Gerusalemme a Ferragosto. La violenza riesplode ciclicamente, quasi a voler ogni volta allontanare ogni tentativo di riconciliazione, non solo politica. Ne abbiamo parlato con mons. Pierbattista Pizzaballa, già custode di Terrasanta e attuale patriarca di Gerusalemme dei latini, ospite oggi al Meeting di Rimini, dove parlerà sul tema “Artigiani di pace. La passione di conciliare”.
Eccellenza, ci si può anche in qualche modo “abituare” a vivere in una situazione di conflitto permanente?
Non so se abituarsi sia l’espressione più precisa, non ci sia abitua mai a questo. È vero che da decenni viviamo in una situazione di conflitto, forse non ci siamo abituati, ma è anche vero che la vita continua, deve continuare. Non possiamo permettere a questi episodi ciclici, più o meno lunghi, di fermare la vita. Il bisogno di vivere prevale, sempre.
“La passione di conciliare” è il titolo dell’incontro a cui interverrà al Meeting. Cosa significa per lei in una Terra dove si parla molto di giustizia, ma non di perdono, una parola quasi impronunciabile, lontana dall’esperienza delle persone, ebrei, musulmani e anche cristiani?
Da una prospettiva cristiana non si può parlare di pace e di giustizia senza parlare anche di perdono. Una parola che è un tabù e che pone una serie di domande: si può parlare di perdono quando la violenza è in corso? Non significa giustificare un male che è compiuto? Sono domande lecite e che bisogna porsi. È chiaro, però, che in una prospettiva cristiana, il perdono deve essere incluso, bisogna capire come, perché di certo il perdono non è qualcosa che può essere regalato. Sono convinto che sarà difficile progettare un futuro sereno, senza una purificazione della memoria e fino a quando si porrà al centro della propria identità personale, religiosa, sociale e nazionale l’essere vittima, invece che fondare le proprie prospettive su una comune speranza.
La strada è quella dei testimoni, di persone che mostrano un modo diverso di vivere dentro questa situazione, in questa terra?
Penso in particolare alla comunità cristiana di Gaza: è una comunità piccola, che ha tutti i diritti per sentirsi limitata, schiacciata e per lamentarsi di tutto, eppure nelle mie tante visite nella Striscia non ho sentito una parola di rancore, anzi hanno più volte espresso il loro impegno perché il cuore non si inaridisca nell’odio, nella ribellione e nella rabbia.
Mi viene in mente in questo senso un passaggio del recente libro di Papa Francesco sulla guerra, in cui scrive: “Il Vangelo ci chiede soltanto di non guardare da un’altra parte, perché il conflitto si radica dove si dissolvono i volti. Quando l’altro, il suo volto come il suo dolore, ce lo teniamo davanti agli occhi, allora non è permesso sfregiarne la dignità con violenza. Non fermiamoci su discussioni teoriche, prendiamo contatto con le ferite”. Cosa significa per lei prendere contatto con le ferite e allo stesso tempo lottare per la dignità e la giustizia della sua gente?
Resterebbe altrimenti tutto astratto, teorico. Magari anche molto bello, lucido, preciso, chiaro, ma non reale. Come invece lo sono i volti delle persone, l’incontro con le loro storie, i loro drammi, le loro speranze, le loro attese, quello che loro sono. Incontrare le persone non significa portare soluzioni, ma sicuramente ci porta a una maggiore consapevolezza, ci rende più vicini all’altro. Noi vorremmo sempre trovare soluzioni, ma in alcune situazioni le soluzioni non ci sono. C’è invece un modo di stare, di esserci, di creare comunità, di ascoltare; che, specialmente in contesti così lacerati, sono aspetti determinati della vita.
Ad aumentare la tensione in questi giorni c’è stata anche la decisione delle autorità israeliane di dichiarare organizzazioni terroristiche sette istituzioni per i diritti umani palestinesi. Mercoledì notte le forze di sicurezza israeliane hanno fatto irruzione nelle rispettive sedi per interromperne l’attività, sono stati perquisiti anche i locali della chiesa anglicana di Ramallah. Come giudica episodi del genere?
Il conflitto non è innanzitutto armato, ma politico. Uno degli aspetti di questo conflitto è il negare l’uno l’esistenza dell’altro, il linguaggio dell’altro e così via. C’è una politica da parte dei Governi israeliani di combattere ogni genere di discorso politico che metta in discussione la politica di Israele nei confronti dei palestinesi. Hanno preso di mira una serie di Ong, con l’accusa che collaborano con alcune organizzazioni terroristiche. Non sono in grado di verificarlo, ma trovo inverosimile che negli uffici della Chiesa anglicana ci fossero attività di questo genere. Non posso comprendere, né giustificare scelte del genere, scelte tutte politiche.
Sul piano più propriamente politico, vediamo da un lato l’anziano presidente palestinese Abu Mazen sempre più in difficoltà, isolato e con sempre meno consenso interno, e dall’altro Israele che controlla militarmente e civilmente il 60 per cento dei Territori palestinesi e allunga di giorno in giorno la lista dei Paesi arabi con cui allacciare piene relazioni diplomatiche. La questione palestinese sembra derubricata anche dall’agenda della comunità internazionale.
È un dato di fatto che la questione palestinese non sia più nell’agenda della comunità internazionale, come lo è il fatto che i palestinesi sentano di essere rimasti soli nella lotta per la loro causa. In merito alle prospettive, è vero che ci sono stati tutti questi accordi di Israele con una serie di Paesi arabi, che hanno un carattere politico importante, legati a interessi comuni a questi Paesi, ma è ugualmente vero che la questione palestinese resta. Ci sono più di 4 milioni di palestinesi con cui bisognerà fare i conti. Si possono costruire ancora più muri, ma quei quattro milioni di persone restano e non rinunciano ad avere una loro casa nella loro terra.
A novembre Israele andrà alle urne per la quinta volta in poco più di tre anni. Benjamin Netanyahu, il leader più longevo della storia dello stato di Israele, dato per sconfitto, ora sembra di nuovo favorito. È un segno di difficoltà di leadership anche in Israele?
In Israele siamo al quinto voto in tre anni e mezzo, nei Territori palestinesi non si vota dal 2005. Sono sintomi, diversi di una medesima fragilità nella vita politica di mancanza di leadership. Il fatto che dopo 12 anni non ci siano leader alternativi a Netanyahu nello schieramento di destra ne è un segno evidente.
Come si guarda da Gerusalemme al conflitto in Ucraina?
Il conflitto in Ucraina è visto come qualcosa di lontano, di europeo. Ci sono certamente anche aspetti politici. Ci sono tanti russi ed ucraini in Israele, con legami molto forti con entrambi i Paesi. La Russia di fatto confina con Israele in Siria, i palestinesi sono sempre stati molto legati al mondo russo. Putin è uno dei pochi leader che sostiene in modo chiaro la questione palestinese. Se da un lato, quindi, la guerra in Ucraina è vista come una questione europea, dall’altro è un ginepraio in cui si entra poco. I palestinesi avvertono anche un doppio peso e una doppia misura. Quello che non è consentito a Putin in Ucraina, è consentito ad Israele nei Territori palestinesi.
E sul fronte religioso?
Sul fronte religioso, la frattura all’interno della Chiesa ortodossa è un ferita profonda che paralizza un po’ il mondo ortodosso. Gerusalemme non deve prendere le parti di uno o dell’altro, ha un ruolo pacificatore, perché tutti si sentono legati alla Chiesa di Gerusalemme. Credo sia importante per la Chiesa ortodossa di Gerusalemme di continuare, con pazienza, ad essere questo riferimento, non dico neutro, ma vicino a tutte le parti.
Dove attinge lei personalmente l’energia per una resilienza necessaria in ogni ambito della realtà della Terrasanta?
La prima fonte sono la fede e la preghiera. Senza un rapporto solido con Cristo, non ce la fai. In secondo luogo qualche amicizia sana, che ti aiuta a guardare le cose anche da altre prospettive, altrimenti resti solo tu con le tue impressioni e poi qualche buona lettura che ti aiuta ad ampliare l’orizzonte.
(Alessandra Buzzetti)
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