Una settimana santa di guerra. A sei mesi dal massacro perpetrato da Hamas in Israele, non si vedono ancora vie di uscita dal conflitto. Restano in salita le trattative per una tregua umanitaria nella Striscia di Gaza e il rilascio dei 134 ostaggi ancora nella mani di Hamas. Il bilancio dei morti a Gaza, secondo il ministro della salute di Hamas, ha superato le 32mila vittime, sono più di 70mila i feriti in ospedali al collasso e la popolazione civile fa i conti con lo spettro della carestia.
“Stiamo vivendo la notte del Getzemani” dice il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, che ieri ha guidato la processione della domenica delle Palme sul Monte degli Ulivi. Un appuntamento di solito affollatissimo di pellegrini e cristiani locali, che quest’anno sarà invece ristretto a cristiani e religiosi che vivono in Israele, mentre permangono forti restrizioni per i palestinesi, anche cristiani, che vivono in West Bank.
Siamo all’inizio della Settimana Santa, possiamo dire che è la più difficile dei suoi 34 anni in Terra Santa?
Penso di sì. Non è la prima volta che c’è la guerra, non è quindi tanto la guerra a renderla più difficile, ma il contesto di odio, di risentimento, di mancanza di fiducia, di frustrazione. Tutti questi sentimenti negativi che fanno da contorno o anche da substrato, se si vuole, alla guerra rendono la situazione molto più pesante. A renderla particolarmente difficile oggi è poi la mancanza di prospettive. Non si sa come e quando si potrà ricominciare.
Venerdì scorso è tornato a Tel Aviv per la sesta volta dal 7 ottobre il Segretario di Stato americano Antony Blinken, ha incontrato il premier Netanyahu e il Gabinetto di guerra israeliano. Gli Stati Uniti sono sempre stati attori decisivi nel conflitto israelo-palestinese, ma oggi sembrano molto deboli nel premere sulle parti anche solo per ottenere una tregua umanitaria, e mai il rapporto tra Gerusalemme e Washington è stato così compromesso. Quali sono gli effetti di questa debolezza americana e della sfida aperta del primo ministro israeliano all’amministrazione Biden?
È un elemento di novità, non assoluta, ma diventato più evidente. Già negli anni passati si è visto una sorta di allontanamento e di minore presa degli Stati Uniti su tutto ciò che riguarda il Medio Oriente. In questo momento è diventato molto evidente. A me è diventato chiarissimo che la comunità internazionale, compresi gli Stati Uniti, può accompagnare, può sostenere, può fare pressione, ma non può sostituirsi ai protagonisti locali. Le iniziative devono partire da qui. In ogni caso la debolezza degli Stati Uniti crea un grande dilemma, perché finora c’è sempre stato qualcuno che metteva le cose a posto, adesso non c’è più e dobbiamo farlo qui, anche se non so se come quando si potrà fare.
Nel frattempo nella Striscia di Gaza la popolazione è stremata e, in particolare nelle aree settentrionali, è alla fame e la FAO avverte che a maggio potrebbe esserci una vera e propria carestia.
È una situazione intollerabile, incomprensibile. Abbiamo sempre avuto tantissimi problemi di ogni tipo qui, la situazione economica e finanziaria è sempre stata molto fragile, ma è la prima volta che dobbiamo fare conti con la fame vera e propria. È intollerabile. Penso che tutti – le comunità religiose, politiche e sociali – debbano fare tutto il possibile per rompere questa situazione.
Tra i due milioni e 300mila palestinesi nella Striscia ci sono anche 600 cristiani ancora rifugiati nella parrocchia latina di Gaza City. Hanno ancora viveri?
Qualcosa da mangiare c’è, ma non tanto. Cucinano una volta o due la settimana e questo deve bastare per tutti. Certo se lo paragoniamo con chi non ha assolutamente nulla, stanno un po’ meglio. In ogni caso i viveri stanno finendo e non si possono comparare, perché non si riescono a trovare. La situazione sta diventando molto difficile: sono ormai da sei mesi chiusi dentro il compound parrocchiale, con poco cibo, poca acqua e tanta violenza intorno.
Questi sei mesi di guerra hanno acuito anche la già precaria situazione dei palestinesi che vivono in West Bank, a partire da Betlemme, oggi desolata e vuota, dove la maggioranza delle famiglie, specialmente cristiane, vivono dell’indotto dei turisti e dei pellegrini. Come aiutarli?
L’emergenza economica nei territori dell’Autorità palestinese, in modo particolare nella zona di Betlemme, è molto acuta. Le varie realtà della Chiesa cattolica stanno lavorando molto per sostenere l’emergenza, anche creando occasioni di lavoro, almeno temporaneo, in attesa che la situazione si sblocchi. L’aiuto viene sicuramente dalla preghiera, che poi può diventare anche azione concreta, penso alla Colletta del Venerdì Santo. Credo che sia tempo anche di invitare i pellegrini a tornare in Terra Santa. Capisco molto bene che ci sia tanta paura, capisco che spaventano le immagini che arrivano dai media, ma penso che sia possibile oggi fare un pellegrinaggio in Terra Santa, magari non completo come nel passato. Sarebbe una forma molto bella, molto concreta di sostegno alla piccola comunità di Betlemme.
Quale sarà il cuore del suo messaggio di Pasqua alla Chiesa di Gerusalemme?
La prima domanda mi faccio è cosa dico a me stesso, cioè come vivrò io la Pasqua. Sarà una Pasqua difficile, come abbiamo detto all’inizio. Penso a Gesù al Getzemani, alla sua solitudine, che è un po’ la solitudine di tutti noi in questo momento. Penso anche alle risposte possibili: il sonno degli apostoli, che è l’atteggiamento di chi aspetta che le cose passino e si risolvano da sole; impugnare la spada, come Pietro, che non porta alcuna prospettiva, come stiamo vedendo; oppure la risposta di Gesù, che è quella di rinnovare, nonostante tutto, nonostante il sangue, la fiducia in Dio Padre Provvidente. Credo che è quello che dovremmo fare.
(Alessandra Buzzetti, corrispondente di Tv2000 da Gerusalemme)
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