Viene la guerra. Inesorabile, la tela di ragno del conflitto dipana le sue spire e nutrendosi delle tensioni regionali, oltre che di quelle reputate inestricabili come la dolorosa vicenda mediorientale, prepara la guerra mondiale vera e propria. Non più la “guerra mondiale a pezzi” evocata da Papa Francesco, ma un conflitto dal quale far derivare nuovi equilibri presentando su scala globale il conto dei nuovi rapporti di forza: in particolare della nuova demografia e dei nuovi scenari militari.
Non è facile illustrare la complessità di ciò che si muove su uno scacchiere dove nulla è come sembra. Il viaggio di Anthony Blinken in Medio oriente per esempio è partito dalla Turchia, Paese perno della Nato e della sua postura anti-russa e nello stesso tempo Paese che rivendica l’antica leadership del mondo islamico in chiave neo-ottomana e che in questi mesi non ha lesinato duri attacchi ad Israele. Oggi le continue invettive di Erdogan contro Benjamin Netanyahu potrebbero far pensare ad una crisi irreversibile nelle relazioni tra Israele e Turchia; in realtà anche in questo contesto il vero obiettivo del presidente turco è alzare il prezzo del proprio negoziato con gli americani per convincerli a riprendere le forniture degli aerei da combattimento indispensabili per Ankara e sospesa dagli Stati Uniti dopo la provocatoria decisione da parte turca di approvvigionarsi anni fa di sistemi missilistici dai russi. Il problema è che alla Turchia ormai sta stretto nella regione a cavallo tra Caucaso, Mediterraneo e Medio oriente il ruolo di alleato in seconda degli americani, che hanno a turno privilegiato diversi tra i Paesi arabi; in più, Ankara vede nel braccio di ferro con Israele il modo più semplice per porsi alla testa di area più che mai instabile.
Nel frattempo l’Iran ha subito un devastante attentato alla tomba del generale Soleimani, rivendicato dall’Isis. Il terrorismo di matrice sunnita è tornato a colpire, ma dopo l’accordo siglato il 10 marzo 2023 a Pechino tra Teheran e Riyad, l’Arabia Saudita è il solo Paese escluso oggi dai sospetti di Teheran. Segno del riequilibrio in divenire dei poteri a livello globale.
Il mondo è in fermento e il Medio oriente non fa eccezione; e nel caos apparente si distinguono le strategie di quei Paesi che vogliono elevarsi da potenze regionali a potenze globali. Oggi sono gli Stati Uniti in particolare a farsi carico della ricerca di nuovi equilibri, e l’Europa sembra non rendersi conto che molto avverrà a suo discapito. Quelli che invece sono consapevoli del nuovo “grande gioco” si preparano ed usano anche le disgrazie dei conflitti israelo-palestinese, russo-ucraino e dell’area africana e centro-caucasica per aumentare la propria influenza ed armarsi fino ai denti.
Cina, India, Russia, Arabia Saudita, Iran, Turchia e ovviamente gli Stati Uniti, supportati in primis da Regno Unito ed Australia, mettono sul piatto soldi, armamenti e tecnologie per farsi trovare pronti nel momento ineludibile di una nuova spartizione che abbia le caratteristiche di una nuova Yalta. Ma Yalta, come Parigi, come Vienna, come Vestfalia, sono negoziati avvenuti sempre dopo guerre rovinose. Mai prima.
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