Da una parte Blinken e l’amministrazione Usa che di fatto sostengono a spada tratta Israele ma chiedono aiuto ai Paesi vicini per evitare l’escalation del conflitto. Dall’altra i governi arabi e musulmani del Medio Oriente che vogliono il cessate il fuoco per mettere fine alla catastrofe umanitaria. La contrapposizione evidenziata dopo il colloquio del segretario di Stato americano nei colloqui in Turchia con Erdogan e il ministro degli esteri Hakan Fidan è una chiave di lettura per la situazione del conflitto israelo-palestinese.
Il mondo arabo e musulmano, spiega Valeria Giannotta, direttore scientifico dell’Osservatorio Turchia del CeSPI, non tollera più le ripercussioni sui civili dell’operazione militare di Israele. D’altra parte anche Netanyahu è stato contestato in patria e sono state chieste le sue dimissioni: forse la de-escalation potrebbe cominciare se ci fosse un nuovo governo israeliano. Israele intanto dice che si passa una nuova fase della guerra: operazioni speciali. Ma le armi non tacciono.
Erdogan è stato il primo capo di Stato sentito da Blinken nel suo viaggio in Medio oriente per evitare l’escalation del conflitto. Secondo alcune indiscrezioni alla Turchia sarebbe stato chiesto di avere un ruolo nella gestione di Gaza nel dopoguerra. Cosa ci può far capire questo incontro sulla situazione della crisi mediorientale?
Dopo l’incontro non c’è stata una conferenza stampa né dichiarazioni formali, solo un comunicato del Dipartimento di Stato Usa ripreso dall’ambasciata americana in Turchia e pochissime battute di Hakan Fidan, il ministro degli Esteri di Erdogan. Gli Stati Uniti parlano della necessità di evitare un allargamento del conflitto e di un maggior coinvolgimento degli Stati regionali, in particolare la Turchia, per incrementare gli aiuti e gestire la catastrofe umanitaria. Non è stato fatto cenno, però, alla richiesta di cessate il fuoco. Fidan, invece, nelle poche dichiarazioni rilasciate ha ribadito che il suo Paese continua gli sforzi per ottenere un cessate il fuoco immediato. C’è tutta una campagna mediatica in Turchia, da diverse settimane, in cui si riporta l’attenzione sui crimini commessi nella Striscia di Gaza e sulla necessità di far tacere le armi. Tanto è vero che a Capodanno è stata organizzata una marcia per chiedere proprio questo.
Che valutazione può essere data, allora, complessivamente dell’incontro?
C’è una nota positiva: quando un mese fa Blinken era venuto a Istanbul non era stato ricevuto da Erdogan, questa volta sì. Hanno parlato per più di un’ora: da parte americana è emersa la necessità di riconoscere la Turchia come mediatore per trovare una soluzione al conflitto.
Blinken riconosce a Erdogan il ruolo che il presidente turco aveva immaginato per sé con il suo piano che prevede quattro Paesi garanti dei diritti di Israele e Palestina?
Sì e no. Dai documenti americani è emerso che in Turchia trovano riparo esponenti di punta di Hamas. Da fonti ufficiose sul tavolo ci sarebbe stata la richiesta americana di estradare queste persone o comunque di allinearsi ai parametri occidentali. D’altra parte negli ultimi giorni è stata individuata una rete di personaggi legati al Mossad: sono state arrestate 34 persone. Erano stati arruolati siriani e palestinesi con l’obiettivo di destabilizzare il Paese. Ci sono tensioni fra Turchia e Israele. Erdogan ha a cuore la sorte di Hamas, i turchi ritengono che sia un gruppo di resistenza e non terroristico. Il ruolo di mediatore della Turchia tra Russia e Ucraina era riconosciuto da entrambe le parti, in questo caso c’è questa macchia nera nei confronti di Ankara che è il sostegno ad Hamas.
I rapporti fra Turchia e Israele, insomma, molto altalenanti, sono tornati in una fase negativa?
Già prima degli arresti dal ministero degli Esteri e dal ministro degli Interni sono arrivati proclami secondo i quali qualsiasi intromissione di Israele negli affari turchi non sarebbe stata tollerata. C’è anche da dire che siamo entrati nuovamente in campagna elettorale per le amministrative, si vota il 31 marzo.
La preoccupazione maggiore, in questo momento, è che non ci sia un allargamento del conflitto, in particolare in Libano, dove gli scontri fra Hezbollah e Israele si sono acuiti. D’altra parte anche Paesi come Qatar e Giordania, incontrati da Blinken, hanno chiesto il cessate il fuoco. La Turchia da questo punto di vista che ruolo può giocare, che tipo di alleanze può sfruttare?
Il dialogo con gli altri Stati della regione si è intensificato. Dopo l’attentato in Iran c’è stata una lunga telefonata di Erdogan con Raisi, il cui viaggio il giorno dopo in Turchia è stato annullato. Ma il vero punto di forza della Turchia è il rapporto con il Qatar, che è considerato un po’ il suo protettorato. È una sorta di Paese pilota per intavolare il dialogo con i vicini del Golfo. L’obiettivo turco è la stabilità della regione per evitare effetti di spillover. Tra l’altro si stanno verificando nuove tensioni in Siria: la basi americane sono state colpite da droni. Lo sforzo di Ankara continua soprattutto a livello umanitario.
Cosa sta facendo da questo punto di vista?
È uno dei maggiori donatori, continua a inviare camion per approvvigionamenti, i feriti palestinesi vengono spesso portati negli ospedali turchi. Siamo in una regione molto divisa sul piano ideologico e settario, tra sciiti e sunniti. La Turchia però non è un Paese arabo, i tentativi di mediazione vengono apprezzati, ma non può essere un attore riconosciuto da tutte le parti. Anche il dato storico e il passato ottomano contano. Quando si parla di Stati garanti per una soluzione in Palestina, quindi, la Turchia sostiene altri Paesi, come il Qatar o la Giordania.
Evitare l’escalation in questo momento vuol dire soprattutto influire sull’Iran, che sta dietro diverse milizie che potrebbero allargare i combattimenti con Israele. La Turchia può cercare di parlare con Teheran su questo punto?
I rapporti con l’Iran sono sempre stati cordiali, ma sono Paesi un po’ amici e un po’ nemici, perché entrambi mirano a una sorta di leadership regionale. Il dialogo è importante ma non credo che la Turchia possa influire su Raisi: Ankara sa che nel momento in cui la potenza di Israele viene ridimensionata l’Iran sarebbe il grande competitor nella regione. Da parte americana ci sarà stata una richiesta di continuare il dialogo, ma con la consapevolezza che Erdogan non ha un grande ascendente su Raisi.
Alla fine la Turchia agisce tramite il Qatar?
Sì, attraverso una logica proxy: dialogo diretto con tutti ma poi si manda avanti chi può realmente fare leva sugli altri Paesi. Il cavallo di battaglia di Erdogan è, d’altra parte, la normalizzazione dei rapporti con i Paesi della regione. Nei confronti dell’Iran il Qatar ha molto più margine di azione.
Resta comunque il fatto che Blinken non sembra recepire la richiesta di più Paesi dell’area, se non di tutti, di mettere a tacere le armi.
In Turchia, ma non solo lì, si fa molto leva sulla catastrofe umanitaria, sul fatto che vengano ammazzati molti giornalisti, sui bambini che muoiono, sul sovraffollamento di ospedali che comunque vengono continuamente bombardati. L’unica soluzione che gli Stati della regione vedono percorribile è quella del cessate il fuoco e poi la creazione di due Stati. Questo è balzato all’occhio dopo l’incontro con Blinken: non si è fatto riferimento da parte americana al cessate il fuoco, che è la principale richiesta dei Paesi che il segretario di Stato Usa sta contattando.
D’altra parte, Israele ha dichiarato che la guerra continuerà per tutto l’anno. L’atteggiamento degli Usa è sulla stessa linea?
C’è la percezione, in questa parte di mondo, di un’amministrazione americana connivente con Israele: il primo viaggio di Blinken in Medio Oriente non è stato per nulla apprezzato, quando è arrivato Biden e ha abbracciato Netanyahu sui principali giornali qui si è parlato di “abbraccio del diavolo”, ora vediamo come andrà questa ultima serie di incontri. Non c’è un grande entusiasmo.
L’Occidente ha capito o no quanto è alta la tensione nelle opinioni pubbliche arabe e musulmane per il disastro umanitario a Gaza?
È il vero punto che fa la differenza tra questa parte di mondo e l’Occidente. I canali internazionali in Turchia parlano quasi soltanto della questione palestinese, anche i social in media portano in rete i video dei civili che vengono costantemente bombardati. Ieri la morte del figlio giornalista di Wael Dahdouh, il report che apprese in diretta della morte della sua famiglia, ha fatto notizia. Si parla del fatto che a Gaza sono stati uccisi 102 giornalisti, questo mentre l’Occidente sostiene la libertà di stampa. In Turchia e nel mondo arabo si batte su questo.
Anche gli incontri di Blinken dimostrano che ci sono due mondi che non si incontrano?
Sui media turchi nelle ultime ore si è fatto riferimento a una protesta di parte della popolazione israeliana che reclama le dimissioni dell’attuale governo, a riprova di un sentimento che non è antisemita, ma contro l’operato di Netanyahu e del suo esecutivo. Probabilmente la soluzione passa da questo.
(Paolo Rossetti)
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