Il nuovo Governo che sta per ricevere la fiducia del Parlamento eredita dal precedente un insieme di vertenze aziendali gestite da tempo al ministero dello Sviluppo economico dalla Struttura tecnica preposta a seguirle e, nei limiti del possibile, a risolverle positivamente. È un lavoro molto complesso quello che si svolge al Mise per il cui successo – è bene dirlo con chiarezza – non esistono ricette facili per risolvere problemi difficili. Lo scrivente lo afferma con cognizione di causa e per esperienza personale, avendo svolto tale attività presso una struttura similare istituita (proprio su sua proposta) nel 1995 presso la Regione Puglia, e tuttora esistente, che si interfacciava quasi sempre con la task force per l’occupazione creata a palazzo Chigi sin dal 1992 dal Governo Amato e che è stata guidata per lunghi anni prima dall’On. Gianfranco Borghini e poi altrettanto a lungo dal Dott. Giampiero Castano.
Lavorare in équipe in questi organismi esige grande pazienza, profonda sensibilità e comprensione per il dramma di chi rischia di perdere o ha già perso il lavoro, competenza tecnica per individuare le soluzioni più idonee, totale abnegazione perché si lavora senza orari e, soprattutto, dedizione assoluta alla causa, anche perché difendere o recuperare posti di lavoro non ha colore politico alcuno. Una sorta – non sembri profana l’affermazione – di sacerdozio laico, nel cui esercizio non ci si deve risparmiare, perché spesso negli occhi dei propri interlocutori si coglie disperazione, rabbia, ma anche la luce della speranza, quando si risolvono positivamente determinate situazioni. Dir non lo può chi non lo prova.
Certo, poi occorrono anche articolati strumenti normativi che aiutino i tecnici nel loro lavoro e sensibilità politiche (in Parlamento) utili a delineare e approvare le leggi più utili per impostare soluzioni positive, così come occorrerebbe un sistema di ammortizzatori sociali finalmente universale, moderno e finalizzato alla gestione delle emergenze occupazionali, ma orientato fortemente alle politiche attive per il primo lavoro o per il reimpiego. Sotto questo profilo è auspicabile che quanto dichiarato dal neo ministro per il Lavoro Andrea Orlando nell’incontro di domenica scorsa con i sindacati – circa l’approvazione entro fine febbraio di un nuovo sistema di ammortizzatori sociali – sia un impegno mantenuto dal Ministro, dall’Esecutivo e dal Parlamento.
Ora, senza dilungarci oltre su considerazioni di carattere metodologico sulla natura del lavoro delle task force per l’occupazione, esaminiamo quattro vertenze che da tempo attendono soluzioni organiche, anche se alcune di esse hanno percorsi già impostati, ma da completare e rafforzare. Parliamo dell’ex Alitalia, dell’Ilva, dell’Embraco e della Whirlpool.
Premettendo (doverosamente) che per ognuna di queste vertenze chi scrive esprime valutazioni strettamente personali, per l’ex Alitalia, la conservazione di una compagnia di bandiera nazionale è una scelta positiva, anche se la possibilità di allearsi con altra compagnia di bandiera estera sarebbe auspicabile, magari nella prospettiva di creare un player europeo competitivo a livello mondiale. Oggi abbiamo letto che tornerebbe a farsi avanti Lufthansa per un’operazione che, comunque, dovrebbe realizzarsi nell’ambito di reciproche convenienze. Sarebbe auspicabile, pertanto, che la trattativa fra i competenti Ministeri e la compagnia aerea tedesca, se quest’ultima confermerà ufficialmente i suoi propositi e formalizzerà un’offerta, si svolga sino in fondo e approdi a un esito positivo.
Per l’Ilva – a parte il discusso e contestatissimo da Confindustria e sindacati provvedimento del Tar di Lecce che dispone lo spegnimento dell’area a caldo del Siderurgico a Taranto – si era già definito un accordo fra Invitalia e AMInvestco Italy per un ingresso al 50% della finanziaria pubblica nel capitale della società controllata dalla holding franco-indiana che ha in affitto il ramo d’azienda dei siti dell’Ilva, propedeutico al loro acquisto. Il capitale pubblico tramite Invitalia rientra così nel settore siderurgico e nel 2022 dovrebbe assumere il 60% del capitale dell’attuale gestore degli impianti. Questo accordo di natura societaria è stato accompagnato a un piano industriale che prevederebbe il ritorno a una produzione di 8 milioni di tonnellate a Taranto nel 2025, grazie a nuovi investimenti sull’Altoforno n. 5 – che a quella data produrrebbe con l’Altoforno n. 4 – e un forno elettrico da installarsi e da alimentarsi con il preridotto di ferro da prodursi in un impianto da realizzarsi ex novo; si salverebbero così sino al 2025 fra Taranto, Genova e Novi Ligure gli attuali 10.700 addetti diretti, pur ricorrendo a lunghi periodo di cigs.
Questo, almeno, è l’impianto dell’accordo approvato dal precedente Governo – contestato peraltro da Regione Puglia e Comune di Taranto che vorrebbero invece o la dismissione dell’area a caldo o almeno una produzione tutta da forno elettrico – e ora bisognerà verificare se il nuovo Esecutivo condividerà quanto concordato in precedenza o vorrà mutarlo in parte o in toto.
Per il sito di Napoli della Whirlpool, Invitalia starebbe lavorando alla costituzione di una società con altri imprenditori che potrebbero rilevare lo stabilimento per avviarvi nuove produzioni e reimpiegandovi circa 300 addetti. Anche questa ipotesi attende di essere definita nei suoi dettagli tecnici e validata dal Ministro Giorgetti.
Per la Embraco, venuta meno la vecchia soluzione sostitutiva, è necessario assicurare migliori ammortizzatori sociali alle maestranze che ne sono interessate e lavorare a nuove ipotesi, cercando e selezionando con pazienza e accuratamente nuovi imprenditori affidabili e credibili (anche esteri) che vogliano subentrare nella conduzione degli impianti con altre attività.
Gli strumenti legislativi per interventi di rilancio di siti dismessi esistono, naturalmente adoperabili sempre nella prospettiva dell’individuazione di nuovi partner privati. Anche la legge sulle crisi di impresa e sulle metodologie in essa previste per prevenire o almeno attenuare possibili situazioni di decozione societaria, se ben gestita da tutti i soggetti preposti ad attuarla, potrebbe aiutare nell’affrontare situazioni di difficoltà.
Forse – ma questa è un’opinione del tutto personale già manifestata dallo scrivente in altra occasione – si potrebbe anche ipotizzare in determinate situazioni di crisi, magari in aree classificate di “crisi industriale complessa”, e là dove fosse necessario salvaguardare e rilanciare “siti di interesse strategico nazionale”, che una finanziaria pubblica come Invitalia promuova direttamente il riavvio di determinate attività produttive, anche in assenza cioè di un partner privato, magari avvalendosi di risorse attinte da un Fondo nazionale per la riconversione e la ristrutturazione industriale. Il tema è molto complesso, ne siamo consapevoli, perché in questo caso si potrebbero (legittimamente) temere interventi di tipo assistenziale che però dovrebbero essere preclusi grazie a particolari clausole normative che non li consentano.
Tale tipologia di interventi si potrebbe promuovere nel caso, ad esempio, di produzioni urgenti necessarie alla salvaguardia della salute pubblica (mascherine, vaccini, biomedicali ed altri dispositivi di sicurezza personale), o, eventualmente – e sempre con il pieno consenso dell’azienda privata committente – a rafforzare supply chain a supporto di imprese trainanti che subiscono blocchi produttivi per mancate consegne di subfornitori esteri, come sta accadendo proprio in queste settimane alla FCA di S. Nicola di Melfi, ove l’assemblaggio di Jeep Renegade, Jeep Compass e 500X sta procedendo a singhiozzo per mancate consegne di componentistica da parte di aziende cinesi.
Ma si potrebbero stimolare in determinate operazioni di rilancio aziendale anche le grandi centrali cooperative, alcune delle quali in comparti anche industriali associano imprese top player nei rispettivi settori, dall’agroalimentare alla meccanica, dalla grande distribuzione al facility management.
Si potrebbe incoraggiare per la ripresa di una specifica attività che abbia mercato anche la costituzione di cooperative di ex dipendenti di aziende decotte, offrendo a essi il supporto finanziario della ex legge Marcora, che ne co-finanziava la nascita, e l’ausilio ove necessario anche di temporary management, magari compensato con sovvenzioni regionali, prevedendo inoltre la possibilità che possa entrare nella compagine cooperativa come socio sovventore anche una Finanziaria pubblica o un’impresa privata che ne sia interessata. Naturalmente, le ipotesi appena accennate sia pure sommariamente – e ce ne scusiamo con i lettori – devono fondarsi su business plan credibili e prefigurare assetti aziendali capaci di stare e competere sul mercato, anche conservando una prevalente finalità sociale.
Più in generale, e concludendo, senza indulgere in alcun modo a valutazioni manichee in favore o contro l’intervento pubblico permanente o temporaneo che sia in un’azienda, lo scrivente ritiene che anche una soluzione etatist per determinate crisi aziendali debba essere valutata positivamente, come peraltro accade da anni in Francia. Gli uomini di buona volontà devono prodigarsi per il bene comune, perché, è appena il caso di ribadirlo, si discute della sorte non di capannoni e macchinari – o almeno non solo di essi -, ma in primis di persone, di uomini e di donne che hanno il diritto al lavoro: naturalmente, in logiche di mercato e non assistenziali, ma partendo sempre dal pieno rispetto (e profonda comprensione) delle loro ansie e delle loro legittime speranze.
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