In Veneto c’è un disastro originale, che è ricordo degli anziani e incubo esorcizzato di tutti gli altri, una coscienza collettiva impressa a fuoco, affogata nell’acqua infinita tra mare, fiumi e lagune e campagne. È la grande alluvione del ’51, più di cento morti, quasi 200 mila sfollati (con un conseguente, pesante calo demografico di quei territori, dove in molti non vollero più ritornare), il Po gonfio di pioggia che ruppe gli argini e cancellò in un colpo solo buona parte del Polesine e della bassa veneziana, 110 mila ettari coltivabili allagati, colture finite. Il Polesine (un nome che in realtà significa “terra emergente dalle acque”) sembrava segnato a un destino di abbandono, miseria, morte. Ci vollero parecchi anni, ma quelle terre invece furono poi completamente asciugate, grazie all’opera dei volontari, della solidarietà, ma soprattutto grazie agli enormi sforzi dei consorzi delle bonifiche, riuniti in un ente generale ad hoc.
L’acqua, in Veneto, si è presa poi varie rivincite. Nel novembre 1966 l'”acqua granda” a Venezia, con un’alta marea di 194 centimetri. Nel 2010, alla fine di ottobre, ancora una volta piogge intense, unite da forti venti di scirocco, fecero straripare sei corsi principali, più i vari tronchi ancillari, allagando 140 chilometri quadrati di territorio, tra le province di Vicenza, Padova e Verona, e causando frane e smottamenti nel trevigiano e nel bellunese. Centotrenta i Comuni coinvolti, tre vittime, 150 mila animali morti, 500 mila persone coinvolte. Nel 2018 furono ancora vento (raffiche di 200 kmh) e piogge, potenziate in un vortice d’uragano, a colpire con inondazioni e schianti un’area vastissima, una fascia dalla Francia all’Italia, alla Croazia, all’Austria e alla Svizzera. A Nordest bersaglio furono le Dolomiti e le Prealpi, con il risultato di 42 milioni di alberi abbattuti: fu la tempesta (ma in realtà è stato uragano) Vaia, nome dato da una manager che s’era iscritta all’istituto di Meteorologia di Berlino per averlo assegnato, casualmente, a un particolare evento climatico. Una vanità, alla luce dei fatti, trasformata in masochismo.
In Veneto, insomma, con gli eventi meteo e le calamità che ne possono conseguire si ha una certa familiarità, ma fortunatamente si è anche imparato non solo a reagire e rialzarsi, ma anche a progettare un futuro meno incerto. Nel 2010, mentre a Bologna si studiava un piano di adattamento ai cambiamenti climatici, in Veneto dopo l’ennesima alluvione fu creato (dal commissario straordinario Luca Zaia) un comitato tecnico scientifico che produsse un report sullo stato dei territori e sugli interventi necessari per la messa in sicurezza. Un piano da 2,7 miliardi di euro, che in dieci anni ha visto realizzare opere per poco più di due, in circa 2500 interventi (moltissimi sulle opere di trattenuta acque e consolidamento di argini). Tra questi, sono stati previsti 23 bacini di laminazione (le valvole di sfogo per l’acqua in eccesso): a oggi, ne funzionano quattro (Fontanelle, Montecchia, Caldogno, Trissino), ed è proprio grazie a queste vasche che Vaia non è sfociata nei disastri che altrimenti avrebbe prodotto. Ce ne sono altri due in fase di collaudo, ma i tecnici sollecitano anche tutti gli altri, primo tra tutti quello del Piave, giudicato fondamentale ma ostacolato dagli ambientalisti, smaniosi di preservare presunte biodiversità anche a scapito della sicurezza delle collettività. Non mancano nemmeno le complicazioni negli assurdi iter burocratici e le opposizioni delle amministrazioni locali coinvolte, mentre in tanti lamentano un consumo eccessivo di suolo, anche se i “consumi” sembrano ben altri.
È noto che i lavori di mitigazione dei rischi idrogeologici richiedono tempi lunghi, dalla decisione alla realizzazione passano anni, anche molti, e a volte quelle decisioni non sfociano in nulla di fatto. Nel mentre, però, il clima peggiora, gli eventi estremi diventano centrali, frequenti e sempre imprevedibili, e piegano tessuti urbani e non rimasti troppo a lungo indifferenti. Quello che sta passando come il “modello Veneto” è dunque solo una maniera di fare le cose che dovrebbe essere la cifra minima di qualsiasi decisore di bene pubblico. Adattarsi ai cambiamenti climatici non può significare solo commuoversi ogni volta vedendo i ragazzi volontari spalatori del fango: bisogna lavorare per l’ambiente (costringendo alla limitazione delle emissioni, delle deforestazioni, dei consumi), ma bisogna anche lavorare proattivamente (come in Veneto) per salvare i territori che ci troviamo in dono, mettendo a profitto ingegni e risorse con tutta la determinazione necessaria.
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