L’economia corre in Cina. E il Governo di Pechino già mette mano alle briglie per frenare il cavallo. È ancora fresco il ricordo della sbandata seguita al boom del 2011/12, quando il Celeste Impero assunse, con un consenso Usa, il ruolo di locomotiva del pianeta per uscire dalla crisi dei subprime. Allora l’euforia si tradusse in una serie bolle, dall’immobiliare alla borsa, che mise a serio rischio la stabilità del Paese. Di qui la stretta del credito praticata da alcuni mesi.
Accelera però l’economia americana, sotto la spinta delle attese del Piano Biden. Washington ha attivato una serie di stimoli all’economia che, in proporzione, vale assai di più degli incentivi del New Deal. E poco conta, almeno per ora, che la liquidità possa mettere in circolo l’inflazione: il maggior potere d’acquisto delle famiglie americane, è il calcolo del Presidente, servirà a comprare i beni in arrivo dalle altre aree produttive, assorbendo così i frutti della ripresa dell’Europa, oltre che dell’esplosione della produzione asiatica, ormai, come si vede dalla crisi dei chips, l’elemento chiave dell’economia mondo.
In questa cornice che ricorda da vicino la fotografia del mondo del Secondo dopoguerra (comprese le tensioni tra i blocchi della Guerra Fredda), l’Italia gioca la sua partita per continuare a far parte del modo sviluppato, cui appartiene dopo la fortunata ricostruzione di quegli anni, quando il contributo internazionale, ma ancor di più la mobilitazione delle risorse interne, compì quello che sarebbe stato ricordato come il “miracolo italiano”. Ma che di miracoloso aveva ben poco, salvo la determinazione di Luigi Einaudi, capace di raddrizzare le finanze pubbliche con una feroce determinazione, la buona gestione degli aiuti internazionali, al punto da attrarre investimenti dall’America, e le intuizioni di imprenditori coraggiosi, capaci di fare scelte d’avanguardia, dal ciclo continuo della siderurgia, alle infrastrutture su cui far correre le automobili sfornate dall’industria di massa.
È in grado l’Italia oggi di compiere un’impresa del genere? Speriamo di sì, perché solo un grande sforzo può risollevare le finanze di casa nostra, ormai avviate a un debito/Pil del 160% che non ha precedenti se non in epoca di guerra. Senza trascurare le mille lacune e manchevolezze che affiorano ogni giorno dal fondo di un Paese stressato, che da troppo tempo si rifiuta di crescere.
L’occasione per voltar pagina è l’ultima manovra messa a punto dal ministro dell’Economia Daniele Franco, fedelissimo di Mario Draghi, che concentra le “munizioni” residue (i 40 miliardi del decreto Sostegni 2 e le risorse complementari) in direzione degli investimenti del Recovery Fund per portare il tasso di crescita al 4,5%, una volta tanto sopra le stime del Fondo monetario internazionali. Sì agli aiuti alle imprese e alle partite Iva, ma nell’ottica di quella crescita che dovrà “succhiare” quasi tutte le risorse, favorendo la ripresa con sgravi di imposta, copertura delle bollette, sconti degli affitti tramite crediti d’imposta. O altri meccanismi per garantire nuovi prestiti al sistema produttivo.
È di fondamentale importanza alzare l’asticella della crescita potenziale, l’esatto opposto delle politiche di assistenza che hanno accompagnato l’allontanamento dal mercato del lavoro di tutte e di giovani. A nostro conforto c’è la qualità della nostra produzione industriale, ormai tornata quasi ai livelli pre-Covid (dal -40% di un anno fa ai livelli del febbraio 2020) con un rimbalzo superiore alle previsioni. L’esplosione dei conti correnti, intanto, testimonia della forza del risparmio, ma è anche indice di un potenziale tesoro da investire per accelerare la ripresa.
Certo, bisogna fare i conti con il ritardo dei vaccini. Ma è questione di mesi. Nel frattempo è importante far ripartire i servizi e salvare la stagione del turismo. E in questo quadro pensare a una moratoria sul servizio dei prestiti che potrebbe dare un’ulteriore spinta al terziario. Non è il caso di lesinare gli sforzi in attesa di riattivare la leva della crescita che sta lì, ormai arrugginita, dopo vent’anni di mancato uso. È solo l’inizio, proviamoci.
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