I sindacati hanno il diritto di criticare il Governo, di contrastare i suoi provvedimenti, fino a scioperare senza che i cittadini ne comprendano i motivi (com’è successo nei due ultimi scioperi generali di Cgil e Uil). Onestamente, però, non possono accusare il Governo di destra di perseguire una linea di disintermediazione, vista la frequenza degli incontri che vedono impegnata la presidente del Consiglio e diversi ministri con le delegazioni delle principali confederazioni. Poi magari ci si limita a qualche giro di tavolo, ma le promesse non vengono mai meno.



Il grande accusato della disintermediazione rimane solo Matteo Renzi nel ruolo di presidente del Consiglio. Infatti, Sergio Cofferati ha voluto riconoscere, su Il Diario del lavoro, persino a Silvio Berlusconi l’onore post mortem delle armi: “Silvio Berlusconi fu, per il sindacato, un interlocutore corretto. Ha sempre avuto posizioni in materia economica, sociale e del lavoro davvero molto distanti dalle nostre, e dalla Cgil in particolare, ma non rifiutò mai il confronto: fu sempre disponibile ad ascoltarci, anche quando l’esito della trattativa sarebbe stato negativo per il suo Governo. Due vertenze ricordo in particolare: quella del 1994 sulle pensioni e quella del 2001 sull’articolo 18”.



Tornando a noi, ieri Adolfo Urso ha fatto l’en plein convocando tutte le sigle sindacali comprese negli elenchi telefonici, anche se l’operazione lo ha costretto a effettuare incontri separati per le note ragioni: i sindacati storici non trattano insieme ad altri che fanno parte di una storia diversa dalla loro. Come riportato in un comunicato del Mimt (nomina sunt consequentia rerum), il confronto di ieri segue i precedenti incontri con le organizzazioni sindacali del settore metalmeccanico e il tavolo della moda, e cade alla vigilia della missione del Ministro Urso a Bruxelles in programma per oggi, con incontri in Parlamento europeo e con i commissari sui temi della politica industriale, e in vista della  definizione dei contenuti dei due provvedimenti collegati alla Legge di bilancio che tratteranno, rispettivamente, la riforma degli incentivi e la valorizzazione del Made in Italy.



Il ministro Urso ha espresso gli intendimenti del Governo: “Il 2023 sarà l’anno cruciale per realizzare una politica industriale italiana, che sarà in sintonia con la nuova politica industriale europea, assolutamente decisiva per rispondere alla duplice sfida di Stati Uniti e Cina”, ha dichiarato il Ministro nel suo intervento. “Il tavolo avviato oggi – ha continuato Urso – diventerà un’occasione di confronto periodica e continuativa sia sugli strumenti nazionali sia su quelli europei. Faremo altrettanto con le forze produttive, così da realizzare appieno una ‘cabina di regia’ con sindacati e imprese, che ci aiuti a sviluppare la politica industriale che serve al Sistema Italia, per rilanciare produzione e lavoro nei nuovi scenari globali. Un lavoro di squadra assolutamente necessario”.

L’incontro avrebbe dovuto affrontare in particolare i settori dell’automotive e degli elettrodomestici oltre la questione dell’ex Ilva. Com’è noto, si tratta di problemi diversi. Il settore dell’automotive deve affrontare una piano di riconversione entro tempi ristretti decisi dall’Ue. I maggiori Paesi europei, compresa l’Italia, si trovano tra l’incudine e il martello, nel senso che sono consapevoli dei vincoli ambientalisti che spingono l’industria dell’auto verso il superamento degli idrocarburi, ma denunciano tempi troppo ristretti, ma si rendono nello stesso tempo conto che prima o poi la fase di transizione deve avere un limite e che processi di riconversione tanto importanti vanno predisposti per tempo, senza strumentalizzare le date. Per fortuna l’attuale Governo non è ricattabile da parte dei movimenti ambientalisti e sembra avere una liaison con i governi di Francia e Germania.

Per quanto riguarda l’ex Ilva, non sappiamo che cosa si siano detti il ministro e i leader dei metalmeccanici durante l’incontro. Anche in questo caso, l’orientamento del Governo dovrebbe essere propenso a salvare ciò che resta della più grande acciaieria dell’Europa, vittima dell’accanimento della (in)giustizia tarantina. Peraltro la conferma di Franco Bernabè come presidente di Acciaierie Italiani (AI la nuova ditta di questa martoriata fabbrica siderurgica) è una garanzia.

In una recente audizione alla Camera, Bernabè, parlando del piano industriale, ha spiegato che non è più un problema di risorse: “Per il piano di riconversione di Taranto sono disponibili 2,750 miliardi: i 750 milioni di finanziamento degli azionisti a cui si aggiungono il miliardo del Decreto Aiuti bis e quello previsto nel Pnrr, destinato a Invitalia per sviluppare la società del Dri, il pre ridotto di ferro. Tutte risorse di cui beneficeranno Taranto, Genova e Novi ,ma soprattutto Taranto che ha una cultura industriale che va preservata e fatta crescere in funzione dello sviluppo della tecnologia verde con l’idrogeno e le rinnovabili. I soldi per la conversione di Taranto ci sono e tutto quello che provoca ritardo crea notevole danno”, ha confermato il manager che fu protagonista, in qualità di amministratore delegato, della ristrutturazione dell’Eni. “L’Italia non può fare a meno della produzione d’acciaio primario e l’unico produttore di acciaio da minerale è Taranto. Lo Stato da tempo si è posto questo problema di come evolvere da produzione da altoforno a produzione con tecnologie alternative e la scelta fatta è stata quella di utilizzare il Dri, il pre ridotto di ferro. Lo Stato ha anche avviato concretamente il piano di conversione, ha creato la società per il Dri che da un anno è al lavoro, è nella fase degli accertamenti tecnologici per arrivare entro giugno 2023 alla decisione industriale di investimento. Per completare il piano ci vorranno 10 anni e più di 5 miliardi di investimenti perché si tratta di un piano epocale, come quello della creazione della Finsider all’epoca, perché si tratterà di trasformare la più grande acciaieria d’Europa in stabilimento green. Ma il piano è già in atto”.

Un’altra scelta che ha caratterizzato il Governo nella gestione del pasticcio ex Ilva è quella del ripristino delle scudo penale per gli amministratori nei confronti degli effetti determinati da iniziative precedenti attribuibili ad altre governance. L’ostinazione del Governo Conte 1 a non rinnovare questa misura aveva determinato il disimpegno di ArcelorMittal, ben consapevole che senza la copertura dello scudo i nuovi amministratori sarebbero stati indagati senza indugio dalla procura di Taranto che aveva scelto la linea di chiusura a ogni costo dell’opificio.

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