Il sistema imprenditoriale italiano nel 2020, causa Covid, ha lasciato sul terreno qualcosa come 400 miliardi di euro in termini di calo del fatturato. Un salasso, per sanare il quale il governo Conte ha predisposto quattro decreti Ristori che, concedendo indennizzi elargiti con il contagocce e in ritardo, hanno in molti casi avuto l’effetto di un pannicello calco o di un placebo, suscitando molte proteste in molte categorie produttive. A pochi giorni dal varo del decreto Sostegno, è forse il momento di un cambio di passo. Ne è convinto Antonio Intiglietta, presidente di Ge.Fi. e attento osservatore di quanto succede nel fitto e oggi stremato sottobosco delle micro-imprese e delle imprese artigianali: “Bisogna chiedere credito, non sussidi né ristori, e fare credito. E’ il punto chiave, il solo che oggi può permettere di centuplicare quel tanto o poco di valore, in termini sia di dote finanziaria che di dinamica umana, che oggi abbiamo”. Sarebbe come dare una strambata sulla rotta della ripresa economica, una manovra coraggiosa che richiede tre passaggi, “non concettuali, ma esperienziali”: 1) “l’altro è un bene per te”; 2) “dobbiamo stimarci a vicenda”; 3) bisogna darsi credito l’uno con l’altro, dall’alto verso il basso e dal basso verso l’altro”. In una parola: “Darsi fiducia: se io investo su di te, tu investi su altri. Una catena virtuosa”.
Secondo lei, il paese oggi ha bisogno di questa dinamica di positività?
La linea della ripresa passa da questi tre fattori fondanti. Innanzitutto, non c’è possibilità di ripresa se non insieme. Come dice Papa Francesco: non ci si salva da soli. In secondo luogo, perché questo accada c’è bisogno di darsi credito. Infine, ci si dà credito, si scommette sull’altro, solo se si riconosce una stima. Come è stato nel dopoguerra: noi non siamo usciti da quell’emergenza proprio con le cambiali e il credito? Ecco, fuori da questi tre fattori non può esserci ripresa.
Come si possono tradurre in concreto questi tre fattori?
Partiamo da una considerazione. In Italia si continua a parlare di ristori, che finora sono stati calcolati come quota in percentuale sul fatturato perso rispetto all’anno precedente. Tirate le somme, spiccioli. Perché invece non si dà una linea di credito alle imprese corrispondente a un anno del costo dell’attività, consentendo loro di ripagare questa somma nei successivi 15-20 anni a un tasso d’interesse dell’1-1,5%?
Che impatto potrebbe avere un simile intervento?
Se noi avessimo messo i 100 miliardi che il governo precedente dice di aver stanziato per contrastare l’emergenza economica legata alla pandemia come linee di credito per le imprese, avremmo una disponibilità, grazie all’effetto leva, anche 10 volte superiore. E con una tale dotazione avremmo messo le imprese nella condizione di resistere, preparandosi alla ripresa.
Ristori e indennizzi non dovevano servire proprio a questo: fare da salvagente in attesa di acque meno agitate?
Ristori e indennizzi non sono stati in grado neppure di curare le ferite, perché non sono proporzionali alla “portata” di ciò di cui hanno bisogno le imprese per sopravvivere. Cosa serve dare in 10 mesi a un ristoratore 4mila euro? Solo i costi d’esercizio pesano molto di più.
L’alternativa?
Bisogna mettere gli imprenditori nella condizione di ripartire adeguatamente. E man mano che l’attività riparte, il credito viene restituito con gli interessi, dando alle imprese un tempo adeguato affinché l’ammortamento di questi interessi non sia un cappio.
Ha in mente un modello particolare?
Noi come Ge.Fi. lo stiamo già facendo, e lo faremo per 3mila micro-imprese, grazie a una convenzione con le Banche di credito cooperativo, quelle banche – guarda caso – nate dalla tradizione cattolica proprio con il compito di dare credito alle famiglie e alle imprese.
Come funziona?
Ai nostri artigiani, che per partecipare all’evento fieristico devono pagare o totalmente o una quota del loro investimento in fiera, facciamo pagare solo il 10%. Il resto, grazie appunto alla convenzione, verrà pagato l’anno successivo, a rate, in 12 mesi.
I vantaggi?
Questo vuol dire che durante la fiera fanno liquidità, incassano, possono reinvestire su materiali, prodotti, attività, quindi incrementare il business e crescere, sentendo più lieve il costo della ripresa. E’ una soluzione che stiamo proponendo come modello in giro per il mondo, dalla Francia, al Portogallo o alla Tunisia, e tutti concordano che questa è la strada da seguire. Questo però presuppone il fatto che si conosca a chi si sta dando credito, che storia abbia e che prospettive abbia. In pratica, implica una conoscenza non burocratica, ma reale, dell’interlocutore.
Perché ha scelto questa modalità?
Perché la ripresa economica nasce da un atto di gratuità, non da un tornaconto. Il punto di partenza, quando si decide di investire nelle attività imprenditoriali, non sta nel domandarsi quanto ne verrà come ritorno, ma cosa si può fare per il bene di tutti, e quindi anche per il mio. Si capovolge il paradigma: ti guardo, mi accorgo delle tue potenzialità, sto con te per metterti nelle condizioni migliori di poterti esprimere. Questa è la dinamica che deve rimettersi in moto, a tutti i livelli: liberare qualcuno dal debito significa che a sua volta lui libererà qualcun altro dal debito.
Il concetto di stima, di darsi credito è chiaro. Ma come diventa politica economica?
E’ proprio un problema di polis. Se non vengono agevolati, i tentativi in essere di dare credito diventano più fragili. Più si creano le condizioni adatte, più questa dinamica può accadere e moltiplicarsi, con effetti incredibili. Bisogna avviare politiche economiche agevolative, finanziarie e fiscali che incentivino questa dinamica: dare stima, realistica, alla gente con assunzione di responsabilità e di rischio. E se serve, si cambino pure le norme che ostacolano questo percorso. Perché il sistema paese non si predispone verso una linea virtuosa di questo tipo, che è all’origine di una possibilità di ripresa?
Ma che interventi dovrebbe attuare il governo?
Potrebbe mettere una trentina di miliardi per supportare il consorzio di credito cooperativo o finanziario in termini di garanzie, mettendo in moto un processo in cui le banche tornano a fare le banche, la cooperazione torna a fare la cooperazione e i consorzi fidi tornano a fare i consorzi fidi, in un dialogo con le imprese nel merito di quello di cui hanno effettivamente bisogno. Oggi è più interessante intervenire sul credito e sulla capacità di rilanciare i soggetti produttivi rispetto agli interventi di carattere sociale. La politica di welfare, che pure segue gli stessi princìpi, ha tutta un’altra dinamica.
E’ un problema di strumenti finanziari?
No, non è un problema di tecnica bancaria, è un problema di concezione di sé, delle relazioni e dell’economia. Vanno rilanciate la passione, la capacità di valorizzazione dell’altro come bene per tutti. In questo contesto lo Stato non è quello che mi risarcisce, ma chi mi supporta e mi sostiene nella capacità di creare reti di solidarietà e di ripresa.
E’ una concezione che può più facilmente partire dal basso, coinvolgendo e responsabilizzando i vari attori dell’economia, che dall’alto, non crede?
Questo capovolgimento di paradigma è sussidiarietà pura, ma con una leva di partenza che la promuove e la stimola. Vedo ancora un limite nell’approccio di questa fase che stiamo vivendo.
Quale?
C’è qualcuno che deve ripianare un debito, un venir meno delle attività economiche, solo che così non abbiamo la forza né le risorse per farlo. E se non capovolgiamo il punto di vista, alla fine rimarremo, permanentemente, tutti più o meno molto insoddisfatti. Anche senza accorgersene, in Italia si continua a trasferire allo Stato-mamma la presunzione che ci risolva i problemi. Dal canto suo, lo Stato-mamma fino a qualche mese fa aveva l’arroganza di potercela fare da solo. Oggi vedo il rischio di una pretesa, di una presunzione. Ma non è così. Anche perché, oltre tutto, non possiamo più neanche battere moneta…
Ma quello che lei suggerisce sembra più una svolta concettuale. E’ possibile attuarla nella realtà?
Quello che propongo non è filosofia, ma esperienza: io lo sto già facendo, addirittura potenziando. E ciascuno può farlo, anzi è chiamato a farlo.
(Marco Biscella)