“Le politiche dei sussidi, così come sono state immaginate, stanno distruggendo il lavoro. Bisogna arrivare alla drastica abolizione di uno statalismo della rendita che è follia pura.

Devono cambiare le politiche attive del lavoro, perché oggi viviamo una situazione paradossale: mentre si teme che aumenterà la disoccupazione, anche per il possibile sblocco dei licenziamenti, con la tanto invocata e attesa ripresa stanno nel contempo aumentando le possibilità di lavoro, eppure gli imprenditori non trovano disponibilità.



E’ mai possibile?”. Antonio Intiglietta, imprenditore nel settore agricolo e della ristorazione, riceve ogni giorno segnalazioni: “Il dato di partenza – osserva – è che ci troviamo in una situazione per cui chi cerca oggi persone da occupare fa fatica: non solo chi sta cercando di ripartire, con tutte le difficoltà del caso, ma anche i grandi chef non riescono a trovare personale. E nel mondo dell’agricoltura, allo stesso modo, è quasi impossibile trovare lavoratori, pagandoli in modo dignitoso e regolare”.



Anche fra i giovani, visto che l’Italia ha il record di disoccupazione giovanile e di Neet?

Proprio il fatto che sia difficile trovare soprattutto giovani rende la questione ancora più grave.

Cosa c’è alla radice di questa difficoltà?

Alla fin fine, con il reddito di cittadinanza piuttosto che con la Naspi uno può vivere della rendita garantita dai sussidi pubblici senza fare fatica.

Ma in realtà il reddito di cittadinanza era nato con l’obiettivo di favorire la possibilità di trovare un impiego alle persone che si trovavano in momentanea difficoltà…

Ciò che doveva diventare uno strumento di supporto per introdurre al mondo attivo del lavoro sta al contrario costruendo una mentalità, in base alla quale le persone preferiscono vivere di rendita piuttosto che andare a lavorare. Un’involuzione tragica.



Che cosa rischiamo?

Si sta generando un processo che tende a togliere dignità a una parte di una generazione e a una parte della popolazione. Il lavoro, infatti, non si può ridurre solo a un problema economico, ma è un’occasione di espressione di sé e di partecipazione alla costruzione di un bene comune. Si sta cioè riducendo il lavoro a una rendita sociale garantita dallo Stato sulle spalle, con la “s” e senza la “s”, di chi produce e di chi lavora. Stiamo diventando un paese di mantenuti dal potere centrale. E questa tendenza ha un secondo risvolto gravissimo.

Quale?

Tutto questo va ad appesantire i costi e gli oneri sociali di chi produce e di chi lavora. Non si capisce, insomma, che il nodo della ripresa e del lavoro sta tutto nel supportare, agevolare e sostenere coloro che generano valore, e quindi occupazione.

Sta emergendo la contraddizione insita in una certa cultura non di solidarietà, ma assistenzialistica, in cui si crede che la tutela del lavoratore stia in piedi sulla rendita sociale. Follia pura.

Come si può uscire da questa doppia spirale che, da un lato, introduce una mentalità parassitaria e, dall’altro, va a gravare su chi invece deve mettersi in moto per rilanciare la ripresa?

Occorre ripensare a fondo le politiche attive del lavoro. Da una parte, tutto deve essere connesso ad agevolare, a premiare chi offre opportunità di lavoro. Dall’altra, i contributi per chi non ha lavoro o per chi lo ha perso devono essere strettamente funzionali, e in tempi rapidi, a una formazione che possa riportare queste persone ad avere un posto di lavoro. Attenzione: non ad aderire a un posto di lavoro che piace, ma alle opportunità di lavoro che ci sono sul mercato.

Devono anche cambiare gli incentivi all’occupazione?

Devono essere tali per cui la formazione non sia finta, bensì ben documentata, verificabile e diretta a sbocchi occupazionali. Va creata una stretta connessione tra sussidi, formazione e occupazione, perché non esiste in nessuna parte del mondo che alla fine la gente non lavori, ma prenda un sussidio e possa magari lavorare in nero. Questo è un altro scempio della logica assistenzialistica: è più conveniente alla fine non avere un’occupazione, portare a casa una rendita e lavorare in nero. Anzi, si incentiva addirittura il lavoro nero. Forse è venuto il momento di dare a chi lavora la retribuzione lorda, garantendo allo Stato una trattenuta di solidarietà, mentre le politiche sociali dovrebbero essere direttamente connesse alla libertà delle persone di scegliersele sul mercato, in cui pubblico e privato offrono le migliori proposte di welfare.

Perché questa mossa?

Perché il welfare su cui stiamo basando le politiche sociali ed economiche collegate agli stipendi è praticamente fallito. Bisogna avere il coraggio di porre il tema e di pensare a una riforma profonda.

Intanto la Ue ha invitato l’Italia a superare il blocco dei licenziamenti. I sindacati chiedono la proroga del blocco, che però appesantirebbe ancora di più le difficoltà delle imprese, mentre Confindustria è favorevole allo sblocco tout court, con il rischio che dal 1° luglio si crei un’ondata di disoccupati. Non c’è una “terza via”?

Lo sblocco dei licenziamenti va gestito con intelligenza e gradualità, deve essere l’occasione per ripensare e rilanciare politiche attive del lavoro efficaci e di qualità.

E come far sì che i possibili esuberi non diventino a loro volta beneficiari di sussidi che diventano rendita ordinaria?

Anche in questo caso bisogna collegare i sussidi a un programma serio di formazione professionale e di reinserimento occupazionale, cogliendo quelle opportunità che il mercato offre nella sua dinamicità.

In Italia sembra quasi impossibile difendere le imprese e difendere nel contempo i lavoratori. E’ come se vi fosse ancora una crepa insanabile. E’ così?

La ripresa nasce dalla capacità di creare lavoro e non c’è garanzia di lavoro senza che ripartano le attività imprenditoriali. Bisogna allora incentivare le imprese a creare occupazione sia per i giovani sia per chi deve essere riconvertito e ricollocato nel mercato del lavoro.

(Marco Biscella)