Mi stupisco che qualcuno ancora si stupisca. Mi riferisco alle piroette di Elly Schlein che riempiono le cronache in vista delle elezioni europee con la leader Pd che sta tenendo atteggiamenti contorti e alternanti, sia nella scelta del simbolo che dei candidati, ma soprattutto circa la rotta politica da seguire.
Nulla di nuovo – secondo me – proprio perché la segreteria Schlein è nata nel segno della contraddizione con il (riuscito) tentativo di assemblare tutti gli scontenti interni pur di mettere da parte una classe dirigente allora vista come “datata”. Il problema è che presentarsi “contro” qualcuno è relativamente facile, ma è poi difficilissimo conservare l’appoggio delle anime opposte di chi ti ha votato.
Anche perché – sul piano dei numeri – a parte l’autogol degli avversari in Sardegna, alla Schlein non ne è andata dritta una e tra 30 giorni arriverà la sentenza sul suo futuro politico. La segretaria ha quindi assoluto bisogno di un successo elettorale per non ingrossare le fila degli ex segretari e da qui parte il concetto che ogni voto è importante.
Fedele al (presunto) motto di Mao che non importa di che colore sia il gatto purché catturi i topi, la Schlein schiera in lista gatti di tutti i colori, agevolata questa volta dal sistema elettorale. Visto infatti che alle Europee contano le preferenze è di fatto stata obbligata a mettere in lista qualsiasi personaggio in grado di intercettarne qualcuna pur di rinsanguare l’anemico elettorato Pd perché – in caso di insuccesso – la prima a dover lasciare il campo sarà appunto proprio lei.
Il guaio è che per pesare voti a sufficienza alla fine forse non potrà bastare un ritocco dall’estetista politico, dalla sarta o dal coiffeur perché va bene il “ciapa ciapa” (“prendi prendi”, come dicono a Milano) per accogliere tutti e non mollare nessuno sostenendo di essere alla testa di un partito pluralista, ma – a furia di contraddizioni – più che pluralista il Pd sta diventando un vaso di serpi ancor più litiganti del solito e che si avvelenano tra loro.
Perché, oltre a precettare i Tarquinio come gli Zan, ci sono gli atteggiamenti politici a contare come il caso del Jobs Act, con la firma della Schlein al referendum abrogativo nonostante che fosse uno dei (pochi) atti politici targati Pd.
Ma anche in questo caso non contano i contenuti in sé (tanto il referendum non passerà mai e probabilmente non sarà mai neppure ammesso), ma è un’ aperta richiesta di SOS alla Cgil, così come la legge di iniziativa popolare sul salario minimo pur ben sapendo che mai, dal 1948 a oggi, è “passata” una legge con questo sistema.
Fumo negli occhi, demagogia, ma è un ragionamento prettamente quantitativo visto che ormai i moderati dal Pd se ne sono andati quasi tutti alle vicine concorrenze e quindi la “massa” di voti recuperabile è soprattutto a sinistra.
La Schlein deve assolutamente vincere il 9 giugno, non solo superando il M5S (cosa scontata) ma posizionandosi intorno o meglio sopra il 20%, altrimenti i 19 seggi conquistati nel 2019 (ed erano 29 solo dieci anni fa!) resteranno una pia speranza, con successivo concerto per lei di campane a morto.
Anche perché il carciofo si è ristretto: i radicali si presentano autonomi come “Stati Uniti d’Europa”, Renzi e Calenda sono lontani anni luce, a sinistra la concorrenza non manca e se Conte fa il demagogo rubando la piazza l’unica è appunto strizzare l’occhio a Landini.
Sulle questioni etiche (ma sono poi davvero etiche per il Pd?) così come per le questioni di trasparenza e di “campo largo” la confusione e la contraddizione sono però diventate totali, così come le scelte in politica estera dove si invoca la pace finanziando la guerra, le libertà di genere ma poi si candida contemporaneamente l’ex direttore di Avvenire.
È difficile uscirne e quindi meglio limitarsi a lanciare slogan come per il salario minimo, mai pensato dal Pd quando avrebbe potuto proporlo stando al Governo (e magari anche realizzarlo) tanto che alla fine l’unico collante che tiene è quello del collaudato fronte anti-Meloni e se sarà scontro diretto in TV sarà tutto da gustare.
Basterà? Chissà, certo la Schlein ci ha messo anche del suo ad esempio con le contorsioni sul simbolo dichiarando alla fine che metterci il suo nome sarebbe stato divisivo il che – per una leader – è indizio per lo meno curioso, auto-ammettendo un forte dissenso interno.
Ma la si giri come si vuole: alla fine l’unico bacino di voti in parte saccheggiabile resta quello del M5S (che l’altra volta ottenne il 17% dei voti e 14 seggi in Europa) e visto che Conte gioca la carta della demagogia per riuscirci occorre batterlo sulla stessa strada, ma tirando ulteriormente l’elastico.
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