È quanto meno strano e originale che, dopo circa un secolo, anche in Italia sia stata accettata e quasi rivalutata la parola “riformista”, con un riferimento a una vocazione per le riforme e, più in generale, a un’azione politica dettata da un progresso senza strappi o avventure che provochino crisi sociali o rivolte disordinate. Più che una reale scelta politica sembra un’esercitazione fatta di “parole al vento”.



Nella sinistra l’attacco al riformismo fu stabilito nel secondo congresso del Comintern con i famosi “21 punti” adottati formalmente il 7 agosto 1920 nei quali, proprio al ventunesimo punto, si decideva senza mezzi termini che gli esponenti riformisti, socialisti e socialdemocratici erano dei “socialtraditori”, a volte “socialfascisti” e, nella sostanza, “traditori della classe operaia”.



La sbrigatività dottrinale del comunismo leninista e stalinista, con la Terza internazionale, aveva superato le distinzioni e le differenze che c’erano state tra i marxisti come Eduard Bernstein e Karl Kautsky, a cui si riferivano anche Filippo Turati e Anna Kuliscioff, che furono relegati tutti in un “Aventino” non solo italiano. Ci vorrebbe un libro per spiegare le correnti politico-ideologiche che si riferivano al marxismo e ad alcuni scritti sia di Marx che di Engels.

Il problema è che, nonostante i “fronti popolari”, la Resistenza, che aveva coinvolto antifascisti di tante tendenze politiche, da destra a sinistra, il termine “riformista”, nella sinistra comunista e nel socialismo massimalista, nella sinistra italiana in generale, è sempre stato sinonimo di una tendenza politica avversa, ambigua e addirittura, in alcune occasioni, pericolosa.



Ci fu chi reagì a questa miopia politica, a questa cultura di basso livello. La prima grande risposta avvenne nel 1956, con la tragedia dell’Ungheria, soprattutto nel Psi, ma anche all’interno dello stesso Pci. Tuttavia nel Psi, ancora al 32esimo congresso di Venezia del 1957, si costituì una corrente “autonomista”, cioè autonoma dal Pci, che, anche se guidata da Pietro Nenni, risultò minoritaria nel partito. Bisognerà attendere il 42esimo congresso del Psi, a Palermo, nel 1981, perché Bettino Craxi potesse costituire la “corrente riformista” nel socialismo italiano, con una maggioranza che godeva del 70 per cento del partito e si ricollegava alla lezione di Turati, Matteotti, Treves, Bissolati, con ovviamente nuovi obiettivi da raggiungere legati ai grandi mutamento sociali.

Il ritorno al riformismo era ovviamente del tutto indifferente alla destra del Movimento sociale.

Ma quella svolta socialista aveva un corrispettivo positivo in altri partiti e pochi anni dopo si formò il primo governo di centrosinistra, con la Dc, il Psdi e il Pri.

La svolta di una parte del socialismo ebbe una risposta importante con l’azione di Giorgio Amendola, nel Pci, con la proposta del “partito unico” e il superamento del leninismo. Tanto per ricordare alcune considerazioni massimaliste di quelle scelte politiche, basta citare Lelio Basso, un socialista di sinistra poi psiuppino, che definiva la proposta amendoliana “la brutta copia di un partitone democratico all’americana”. E un devoto della “questione morale” come Enrico Berlinguer redarguì Amendola nel comitato centrale del novembre 1979 con questa frase: “Amendola non capisce nulla di marxismo”. Particolare da non trascurare, Amendola festeggiava 50 anni di iscrizione al Pci e di grande milizia non solo parlamentare

In breve, sembrava che ci fosse un odio atavico per il riformismo italiano.

Poi arrivò la caduta del muro di Berlino, l’implosione del comunismo sovietico e da quel momento cominciò un’altra stagione di “redenti”, certamente meno grave di quella descritta da Mirella Serri rispetto al fascismo, ma indubbiamente grottesca al limite del tragicomico per la politica italiana che caratterizza i nostri giorni o quelli della fantomatica “seconda repubblica”.

Ecco il “nuovo” Walter Veltroni, che pensa alla nascita del Partito democratico e ha dimenticato di essere sempre stato comunista, e quindi fa un passaggio incredibile in uno dei suoi discorsi: “Unire le culture e le forze riformiste del nostro Paese. Superare la parzialità e l’insufficienza di ognuna di esse, di ognuno di noi. Dar vita a una forza plurale attraverso non il semplice accostamento, ma una creazione nuova. Far nascere, finalmente, il Partito democratico, la grande forza riformista che l’Italia non ha mai avuto”.

Alla faccia della coerenza! E soprattutto viene spontanea una domanda: i Matteotti, i Turati, Anna Kuliscioff chi erano? Dei mancati riformisti? Uomini come Pietro Nenni, Bettino Craxi e Giorgio Amendola, erano riformisti di serie B?

Questa premessa è il retroterra storico necessario per comprendere a che punto è arrivata oggi la politica, o meglio l’antipolitica italiana, che divide il Paese in due tra i “nipotini” del fascismo al governo e i “nipotini di Breznev” all’opposizione, con l’aggiunta di una forza tragicomica, creata non per nulla da un comico.

È impressionante vedere come la lunga sequenza italiana anti-riformista da destra e da sinistra parta dalla fine degli anni Ottanta del Novecento, quando il riformismo aveva riguadagnato il suo ruolo e sembrava destinato a stabilizzare finalmente l’Italia. È il primo centrosinistra che nel 1970 vara con Brodolini (Psi) e Donat Cattin (Dc) lo Statuto dei lavoratori. Nel 1979 c’è la massima estensione del welfare state italiano. Nel 1984 si riesce a battere l’inflazione e l’Italia diventa, con la sua economia mista, il quarto Paese più sviluppato nel mondo.

Alla politica riformista del Psi si uniscono Pri e Psdi, ma anche un partito come il Pli si batte per una società liberale e non per un liberismo dove il mercato è il perno intorno a cui ruota tutto. La Dc spesso si divide, ma sostanzialmente condivide la politica che caratterizza l’Italia.

E il riformismo italiano viene apprezzato in Europa da uomini come Willy Brandt, Olof Palme, Felipe Gonzalez, Mario Soares, François Mitterrand.

Quando, nel 1977, Willy Brandt, per inaugurare a Treviri la ricostruzione della casa di Marx distrutta dai nazisti invita il giovane Bettino Craxi a fare il discorso inaugurale, nella sinistra italiana si registrano malori e svenimenti improvvisi.

I socialisti riprendono l’europeismo, che era stato un obiettivo di cattolici come De Gasperi, Adenauer, Schuman, ma anche di Altiero Spinelli.

Mentre sul piano economico è ancora John Maynard Keynes, l’uomo che assieme al presidente americano Frank Delano Roosevelt aveva risolto la grande crisi del 1929, che detta i tempi dell’economia, dove il mercato spesso ha bisogno di essere controllato e dove la finanza non può sostituirsi all’economia reale.

È a questo punto che, in quasi tutto il mondo, si assiste alla rivolta del capitale, attraverso una globalizzazione messa in atto non per una collaborazione tra i popoli, ma per agevolare un’espansione assurda del mercato attraverso le multinazionali e una finanza che detta i tempi dello sviluppo, sostituendosi alla stessa economia e anche alla politica.

La logica della globalizzazione del capitale, l’ultraliberismo che non è certo la società liberale, come sottolinea il francese Alain De Benoist, sono nemici del riformismo. È così che in Italia “Tangentopoli” diventa uno scandalo che ha giovato soprattutto alla globalizzazione del capitale. È uno scandalo che, ancora oggi, si legge alla rovescia. Uno scandalo che guardava alle tangenti e dimenticava i soldi russi al Pci su cui ha scritto Valerio Riva con Oro da Mosca, ma anche Gianni Cervetti, che fu segretario organizzativo di Berlinguer, con L’oro di Mosca.

Ci sono personaggi sconosciuti e mai nominati dai nostri media nazionali. Come Giuseppe Stante, presidente dell’Italturist, vicepresidente della Banca Popolare di Milano, che alla fine si stancò dell’avidità del suo Pci e si dimise, dopo aver assicurato un filone di ricchezza incredibile. Chissà perché la magistratura non se ne è mai accorta.

Forse nell’odio al riformismo, la magistratura aveva nostalgie del codice Rocco oppure si era innamorata del metodo Vysinskij, e intanto si era formata un’alleanza tra “capitani di sventura”, la loro stampa e appunto la magistratura delle procure.

Più che il berlusconismo, più che i governi tecnici, più che i governi-ammucchiata, più che l’attuale spaccatura litigiosa e carica di insidie tra maggioranza di destra e opposizione di sinistra, in Italia ha vinto l’antiriformismo del grande capitale globalizzato che, se non verrà ostacolato e combattuto seriamente, porterà a una ipotetica post-democrazia che nessuno riesce a comprendere che cosa possa essere.

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