OEGSTGEEST (Olanda) – Nel dibattito pubblico sulla strategia anti-Covid del governo Rutte va riconosciuta l’importanza di un gruppo di persone nel mettere a nudo i punti deboli delle scelte operate sinora dalle autorità. Il “Red Team Covid-19 NL” è forse una realtà unica nel panorama mondiale delle idee sulla lotta al coronavirus. Il nome rimanda alle strategie utilizzate da aziende e organizzazioni per identificare i punti deboli interni a livello sia organizzativo che di policy. La loro proposta è quindi quella di mantenere un “contraddittorio organizzato” che possa migliorare la risposta alla pandemia tramite obiezioni formulate in maniera costruttiva. La scorsa settimana, prima dell’ultima conferenza stampa in cui il premier Rutte “decideva di non decidere” prendendo un’altra settimana di tempo per “avere un quadro più chiaro della situazione”, abbiamo intervistato Marino van Zelst, membro del Red Team, data analyst e dottorando in Studi organizzativi della Scuola di scienze sociali e comportamentali all’Università di Tilburg. Van Zelst ha chiarito le proposte avanzate dal Red Team nel paper pubblicato lo scorso 22 ottobre, dal titolo “Voorkom de derde golf” ovvero “Prevenire la terza ondata”.



Grazie Marino per aver accettato di essere intervistato dal Sussidiario. Potrebbe iniziare raccontandoci come è nato il Red Team e la sua proposta nel dibattito pubblico olandese sul coronavirus?

Grazie a voi per l’invito a parlare di noi nel vostro giornale. Il Red Team nasce il 22 luglio scorso quando quattro dei membri fondatori scrissero una lettera al governo. I casi di coronavirus in Olanda stavano ricominciando ad aumentare verso la fine di luglio e sembrava evidente segnalare la necessità di intervenire tempestivamente prima che le cose peggiorassero. Una settimana dopo fummo contattati anche io e altri colleghi per entrare nel Team ed espandere le competenze con esperti di diverse discipline ritenute importanti per poter consigliare il governo in maniera proattiva sulle policy relative alla lotta al Covid-19. Dall’inizio di agosto siamo quindi in dodici: epidemiologi, complexity experts, data analyst come me, infermieri (quindi gente in prima linea nell’emergenza), un economista sanitario e un’antropologa. Un’ampia selezione di discipline, ma un approccio generale centrato sul comportamento delle persone in una pandemia, e su come determinare una strategia efficace a livello organizzativo, guardando ai dati.



Quindi un gruppo di persone in cui ognuno fornisce un contributo specifico. Immagino che internamente discutiate di come poter interloquire con il governo senza suonare troppo “ostili”, cercando di essere diplomatici per riuscire a portare avanti le soluzioni che proponete?

Beh, non necessariamente “diplomatici”. Piuttosto direi, “critici ma in maniera costruttiva”. Perché a volte, per ottenere qualcosa, non si può proprio essere “diplomatici”. Ma noi cerchiamo sempre di essere costruttivi. Ci affidiamo a due principi che riteniamo fondamentali per questo. Il primo è essere costruttivi per aiutare ad aumentare il rispetto delle misure in vigore, e in questo senso non è sicuramente d’aiuto esprimere una critica fine a sé stessa senza proporre qualcosa che aiuti a migliorare le cose. Il secondo principio è la trasparenza: pubblichiamo tutte le informazioni nei nostri documenti e nei paper e mettiamo a disposizione tutti i dati e le fonti che utilizziamo, così che anche altre persone possano utilizzarli. Siamo anche molto attivi sui social network, soprattutto su Twitter, e spesso troviamo spunti interessanti nei commenti che riceviamo.



Mi pare di capire che avete identificato nella composizione dell’Omt (Outbreak Management Team, il corrispondente olandese del nostro Cts), un punto debole importante. In questo senso va vista la composizione eterogenea del Red Team?

Sì. Fin dall’inizio siamo rimasti colpiti dal fatto che l’Omt sia centrato solo sull’aspetto medico-biologico. Ci sono virologi, biologi, medici… Ma manca qualcuno che possa comprendere l’aspetto comportamentale. Per questo motivo noi presentiamo i nostri epidemiologi specializzati nella gestione delle epidemie, la nostra antropologa, noi analisti dei dati… Forse meno accademici nel senso classico del termine, ma crediamo sia importante capire come questa non sia solo una crisi di tipo “medico”, ma una crisi della società intesa nella sua totalità. E cerchiamo quindi di occuparci di questi aspetti.

Cosa è successo esattamente in Olanda nel corso della prima ondata? Cosa è andato storto anche qui nelle case di riposo? Governo e Omt sembravano voler minimizzare e qualcuno sembrava “consolarsi” facendo notare come in altri paesi la situazione sembrava essere molto peggiore.

Infatti, dicevano che tutto sommato la gestione olandese era migliore di quella di altri paesi, dimenticando però la Germania, che stava facendo molto meglio di tutti gli altri. È difficile indicare con precisione cosa possa essere andato storto durante la prima ondata. Una delle cose che abbiamo notato è come il governo abbia avuto un approccio molto “conservativo” nelle raccomandazioni e nella strategia scelta. Prendiamo ad esempio le mascherine: nonostante ci fossero elementi a favore (pur non essendo le mascherine “la” soluzione ottimale, il cosiddetto silver bullet, contro il virus), ci si è trincerati dietro frasi come “non è provato che funzionino”. Poi va considerato l’aspetto delle poche disponibilità, anche questo ha avuto un ruolo nell’approccio conservativo sull’uso delle mascherine, soprattutto nelle case di riposo. Non ce n’erano abbastanza. Qualcosa ha iniziato a muoversi in aprile, ma sempre esprimendo dubbi sull’effettiva efficacia delle mascherine. Questo tipo di approccio poco deciso ha probabilmente reso la situazione più grave.

Credo che abbia molto contribuito alla confusione vedere un personaggio di spicco come Jaap van Dissel (che dirige sia l’Istituto Nazionale per la Salute e l’Ambiente che il già nominato Omt) schierarsi dalla parte degli “scettici” sull’efficacia delle mascherine, nonostante il governo avesse già iniziato a raccomandarle. Questo probabilmente è anche il motivo per cui ci è voluto tanto tempo perché venissero raccomandate o rese obbligatorie?

In parte. L’Omt aveva sempre sminuito l’efficacia delle mascherine (obbligatorie sui trasporti pubblici dal 1° giugno). Siccome pensavano che fossero poco efficaci, non le raccomandavano. Hanno anzi aggiunto come argomentazione il fatto che “potessero fornire un falso senso di sicurezza”, e che quindi qualunque piccolo vantaggio potessero dare in termini di protezione veniva vanificato da questo “falso senso di sicurezza”. Ma diversi studi dimostrano come questo non sia vero, tra questi anche uno studio effettuato qui in Olanda. A un certo punto anche la gente ha iniziato a chiedere le mascherine, ma ci è voluto altro tempo. Probabilmente il Red Team ha contribuito a cambiare la situazione. Dire che “tutti gli altri le usano” non è sicuramente il migliore degli argomenti, ma le prove sull’efficacia delle mascherine non mancano. Quindi il governo ha cambiato policy, anche se il messaggio sembrava essere “non siamo sicuri che funzionino, ma questo è quello che abbiamo deciso”.

Pensa che il Red Team abbia qualche merito nel modo in cui si svolge oggi il dibattito sul virus in Olanda? Come vedete voi la polarizzazione crescente tra chi chiede misure più severe e chi invece protesta chiedendo più libertà? Sembra che nessuna delle due parti sostenga il governo in questo. Non è un po’ una contraddizione?

Sì, ed è una contraddizione affascinante. Sono decisamente d’accordo. Noi come Red Team abbiamo cercato da subito di proporre nel dibattito pubblico un punto di vista diverso su una strategia che potesse portare al contenimento del virus. Questo sempre in maniera costruttiva, il che ci ha consentito di ottenere spazio nei media. Il governo ha scelto di definire la propria strategia come “controllo massimo” e a noi sembra che con la seconda ondata gli obiettivi della strategia avrebbero portato al fallimento per una serie di cause che abbiamo descritto nei nostri rapporti. Abbiamo cercato di comunicare all’opinione pubblica, ad esempio attraverso Twitter, che si può combattere il virus insieme in una maniera intelligente che ci possa portare maggiori libertà a livello sia economico che sociale. Cercando di fare in modo che solo una minima parte si infetti, aiutando così il sistema sanitario.

Tornando alla polarizzazione…

Credo dipenda molto dal fatto che i media tendono a dare voce agli “estremi” che fanno notizia. Mentre quelli che sostengono le misure del governo tendono a essere più silenziosi e credo siano più numerosi di quanto pensiamo. La frattura che c’è tra i due opposti schieramenti (chi vorrebbe misure più severe e chi protesta ritenendole repressive, ndr) credo sia dovuta al vuoto comunicativo che il governo ha reso possibile grazie a una strategia comunicativa poco chiara. Ad esempio: abbiamo avuto conferenze stampa ogni due settimane. A un certo punto, a fine giugno, le misure sono state allentate e il governo è di fatto andato in ferie. Sembrava quindi fosse ok per tutti fare la stessa cosa. A fine luglio hanno fatto una nuova conferenza stampa per dire che i contagi stavano tornando a salire e che la gente avrebbe dovuto iniziare a prestare maggiore attenzione. Questo non è successo e due settimane dopo in un’altra conferenza stampa il messaggio era che bisognava davvero iniziare a comportarsi bene perché “è il vostro comportamento che sta causando il problema”. Senza adottare nuove misure, senza assumere la guida. Si crea un vuoto perché il governo non spiega perché sia necessario fare certe cose e lascia spazio alla disinformazione e a tutte le sciocchezze che ne derivano.

Veniamo allora al vostro documento intitolato “Prevenire la terza ondata”. Un titolo che sembra guardare più al futuro che al presente: come mai? Cosa sta succedendo con la seconda ondata?

Due settimane prima avevamo pubblicato un rapporto in cui chiedevamo che si agisse per evitare la seconda ondata: non si è fatto nulla e l’ondata è arrivata. Per questo abbiamo pensato di scrivere un altro rapporto che indicasse cosa fare per uscire al più presto da questa situazione e prevenire poi una terza ondata. Abbiamo ritenuto fosse più importante concentrarsi sul futuro, piuttosto che guardare a cosa è andato storto nel passato. Pensiamo che quanto sta succedendo sia una ripetizione di quanto visto a marzo, anche se in una maniera meno “esplosiva”, anche perché questa volta abbiamo una chiarezza maggiore sulla dinamica di diffusione del virus. A marzo non ce lo aspettavamo, non avevamo visibilità su come siamo effettivamente arrivati all’ondata. Ma a luglio e agosto questo era visibile. Hanno iniziato a contagiarsi persone nelle fasce di età più giovani, i più anziani molto meno: ma in Francia e Spagna era già evidente che il contagio si stava già espandendo anche a loro, che poi vengono ricoverati e muoiono in percentuali maggiori rispetto agli altri.

Leggo che quello che proponete in questo documento è un lockdown severo, ma di breve durata, per ridurre il tasso di contagio e agire per mantenerlo al di sotto di un certo livello e poter tornare a uno stile di vita più “aperto”. È così?

Esattamente.

Come spiegate questa necessità e come pensate che possa funzionare questa strategia?

Prima di tutto ci tengo a spiegare che noi del Red Team non siamo fan dei lockdown. Pensiamo siano evitabili, se si agisce per tempo. Ma a questo punto e in queste condizioni non ci sono alternative. Per questo proponiamo una strategia in due punti: per prima cosa il lockdown, che se progettato bene dovrebbe consentire di abbattere i contagi nel giro di quattro-sei settimane. A quel punto dovrebbe essere possibile tenerlo sotto controllo con test e contact tracing. In quelle stesse quattro-sei settimane il sistema di controllo deve essere messo in condizioni di essere realmente efficace: in questo modo si può entrare nella fase del “balletto”, come è stata descritta molto efficacemente dallo scrittore Tomas Pueyo nel suo articolo del marzo scorso, diventato subito virale. Nell’analogia scelta da Pueyo il lockdown è rappresentato dal pugno di ferro, e deve essere davvero di ferro perché sia efficace. Durante il periodo del pugno di ferro si organizzano già i passi del “balletto”, che potrà avere luogo solo successivamente. Durante la prima ondata abbiamo visto che il lockdown ha effettivamente ridotto il contagio: dove abbiamo fallito, e direi anche miseramente, è stato nella fase successiva. Per questo serve organizzarla bene.

Parlando della strategia del governo, avete criticato sia la sua definizione che la sua efficacia. Perché?

Le denominazioni accettate internazionalmente sono cinque: la prima è l’inazione, detta anche “Let it rip”. Credo nessun paese la stia più adottando. La seconda è la mitigazione: si accetta che la gente sia contagiata finché la situazione rimane gestibile dal sistema sanitario, facendo in parte affidamento su una certa immunizzazione. La terza strategia è il contenimento: idealmente si cerca di ridurre a zero il contagio, ma sappiamo che questo non è possibile per tanti motivi e allora si sceglie di accettarne un numero che sia il più basso possibile. La quarta strategia è l’eliminazione, si cerca cioè di far sparire il virus dal territorio nazionale. Questa è la strategia della Nuova Zelanda, che ha avuto successo, ma ha il vantaggio di essere un’isola. Ultima strategia è l’eradicazione, ovvero far scomparire il virus a livello mondiale, come avvenuto per la polio in passato. Scientificamente non sembra questo sia possibile per un coronavirus. Quindi le possibilità per un paese come l’Olanda sarebbero due: contenimento o mitigazione. La scelta del nome del nostro governo, ovvero “Controllo massimo”, potrebbe ricadere sotto ciascuna delle due definizioni. Gli indicatori su cui poggiano i provvedimenti del governo si basano sulla capacità del sistema sanitario. Il problema di questo approccio sta nel “ritardo” legato a questo virus.

In che senso?

I ricoveri arrivano due settimane dopo il contagio, e ancora più tardi, nel caso, i passaggi in terapia intensiva. Quindi nel momento in cui gli ospedali iniziano ad affollarsi esiste già un accumulo di contagi, reso peggiore dalla crescita esponenziale degli stessi. Questo non è sostenibile ed è stato discusso anche a livello politico, con alcuni parlamentari dell’opposizione che hanno picchiato duro su questo problema. Ma per il governo il problema non era la strategia, ma il fatto che la gente non rispettasse le misure. Per questo motivo nel nostro documento abbiamo raccomandato di passare a una vera strategia di contenimento invece di quella attuale, che ci pare di mitigazione.

Un altro degli obiettivi dichiarati della strategia attuale è la “protezione delle categorie vulnerabili”. Avete criticato questo obiettivo per come è stato definito e applicato.

Certo. Se è facile identificare gli anziani come più a rischio, è più complicato farlo con quanti soffrono già di altre patologie. Dal punto di vista strettamente medico sappiamo troppo poco di questo virus per poter davvero identificare tutti i vulnerabili. Il loro numero è inoltre sicuramente più alto di quanto immaginiamo, non perché siano in tanti ad essere necessariamente vulnerabili, ma perché ciascuno di noi alla fine conosce direttamente qualcuno che lo sia (o che sia a rischio in quanto anziano). Per questo motivo, con un livello di contagio già elevato diventa impossibile proteggere efficacemente queste categorie di persone. Oltre al fatto che è eticamente scorretto isolare solo una parte della popolazione, come scritto anche nel Memorandum John Snow pubblicato un paio di settimane fa.

Nel vostro documento fate riferimento a una serie di “posizioni” che il governo dovrebbe prendere in considerazione nel determinare una nuova strategia. Quali sono?

Si tratta di alcuni elementi basati su evidenza scientifica e sull’applicazione del principio di precauzione. La prima posizione su cui richiamiamo l’attenzione è la trasmissione del virus mediante aerosol: è utile prendere misure che la prevengano, quindi mascherine e ventilazione adeguata al chiuso. La seconda posizione riguarda la diffusione del contagio tra i più giovani e i bambini. Sono un po’ cinico ora, ma non credo che il virus rilevi l’età delle persone per scegliere chi contagiare. La trasmissione tra giovani e anziani rimane un rischio: bisogna fare qualcosa anche per questo. La terza posizione riguarda la mancanza di garanzie sull’immunizzazione: se anche ci fosse immunità, non sappiamo quanto possa durare. L’ultima posizione riguarda la protezione delle categorie a rischio: questo è difficile e non sappiamo definire esattamente chi appartenga a questo gruppo di persone. Quindi sarebbe meglio limitare la diffusione del contagio senza fare distinzioni tra la popolazione.

A un certo punto nel documento citate una dichiarazione del direttore generale dell’Oms: “Non stiamo solo combattendo una pandemia. Stiamo anche combattendo una infodemia”. Possiamo collegare questo a quanto sostiene il Red Team quando mette al centro dell’attenzione il “comportamento”?

Credo di sì. Gestire una pandemia non ha a che fare solo con il virus in sé, ma anche con le persone. Sicuramente aiuta avere una comprensione del virus, ma alla fine si tratta di un problema della comunità. E si passa dal combattere la pandemia a combattere un’infodemia quando si perde l’adesione della gente alle misure attuate. Come ho detto prima, quello che sta succedendo qui è un vuoto generato dalla leadership politica che porta la gente a cercare il dottor Google. Quando non informi correttamente, quando non educhi la gente sui rischi che nascono dalle conseguenze del loro comportamento, la gente finirà con il cercare le informazioni per conto proprio, senza curarsi troppo dell’accuratezza. La dinamica della disinformazione porta quindi alla diffusione di tante assurdità. Il governo ha fatto informazione tramite le conferenze stampa, ha introdotto nuove misure e si è aspettato che la gente le rispettasse, ma non ha informato in maniera efficace o proattiva. E la gente non ha rispettato le misure, per cui il governo ha espresso poi rabbia nella conferenza stampa successiva. Ma invece di migliorare la comunicazione si è scelto di rafforzare la severità dei controlli, ma questo dovrebbe essere l’ultimo passo: è meglio aiutare la gente a seguire le indicazioni e assumersi la propria responsabilità. Ma per fare questo bisogna fornire gli strumenti giusti, e questa parte è mancata troppo. Da questo nasce l’infodemia.

Al governo raccomandate anche di cambiare il processo di gestione della crisi: in che modo? E credete che la strategia possa realmente cambiare nelle prossime settimane?

Non sono sicuro che la strategia cambierà, e questa è la mia più grande preoccupazione, perché serve che succeda. Uno dei problemi sta nel fatto che a marzo ci saranno le elezioni. La domanda quindi è se il governo e i partiti della coalizione riconosceranno di avere scelto una strategia non vincente e quindi la cambieranno. Non so quanto possano voler fare una cosa del genere a cinque mesi dalle elezioni. Magari sì, io sicuramente lo spero. Credo che forse potrebbero pensare a fare più contenimento che mitigazione, ma non vedo la possibilità di un lockdown a meno che i numeri non peggiorino ancora.

Voi cosa proponete?

Quello che noi proponiamo è un cambiamento nelle strutture di gestione della crisi. Prima di tutto serve un coordinatore, e questo non dovrebbe essere un politico, per quello che ho appena spiegato. Poi servirebbe un team multidisciplinare con magari uno o più Red Team – non necessariamente noi – che possano dare un valido contributo. Serve un team preparato ad affrontare tutti gli aspetti di una crisi non solo medica ma anche e soprattutto sociale. Esperti di epidemiologia, scienziati comportamentali, biomedici, economisti, esperti di etica. Questo approccio viene dalla letteratura riguardante i cosiddetti wicked problems, ovvero quei problemi complessi in cui la mancanza o insufficienza di informazioni rende la soluzione estremamente complicata. Per questo sono importanti i Red Team, per identificare i punti deboli e migliorare le policy.

Per chiudere: come vede lei la situazione a livello internazionale e in particolare in Italia in questo momento?

Prima di tutto credo sia un buon passo quello della Ue che vuole stabilire un framework di “zone verdi” per favorire la libera circolazione di merci e persone, uno dei principi cardine dell’Unione. Questa cosa dovrebbe anche stimolare i governi a migliorare la loro gestione della pandemia, per evitare di pagare conseguenze a livello di turismo e commercio. Credo sia utile perché stiamo vivendo una seconda ondata in paesi come la Spagna, la Francia, il Belgio e l’Olanda.

E sulla situazione in Italia?

Ho una teoria, anche se non è ancora nulla di scientifico o peer-reviewed. La cosa che ha colpito molti è stata come l’Italia stesse andando meglio di altri paesi fino a poco tempo fa. All’improvviso però la situazione è cambiata. Noi in agosto abbiamo pubblicato un rapporto sulle scuole che è passato un po’ inosservato. Non sosteniamo che a scuola i ragazzi si contagino a vicenda per poi estendere il contagio agli altri, ma secondo noi in situazioni in cui il virus si sta già diffondendo molto, contribuiscono alla diffusione in maniera significativa. Abbiamo così scoperto come nei paesi in cui le cose vanno male, la riapertura delle scuole aveva avuto luogo due o tre settimane prima. La nostra conclusione è che se il livello di contagio è troppo alto, riaprire le scuole ha un effetto esplosivo sulla crisi. Credo che questo sia successo anche in Italia, con le scuole che hanno riaperto a metà settembre e i contagi che hanno iniziato a peggiorare molto all’inizio di ottobre. In Israele hanno fatto un lockdown molto severo con anche la chiusura temporanea delle scuole e la crescita del contagio è subito calata, forse anche perché con le scuole chiuse i genitori devono per forza spostarsi di meno e quindi ci sono meno contatti e contagi. Ci sono molti elementi in gioco, ma le scuole, i ragazzi e le dinamiche della società intorno a loro sembrano avere un ruolo importante. Credo questo sia ciò che sta accadendo anche in Italia e in questo senso credo sia una buona idea essere tornati alla didattica a distanza per le scuole superiori.

(Raffaele Magaldi)

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