Tra le grandi città del mondo New York è la più colpita dal coronavirus: 131.263 casi confermati, quasi 9mila decessi. La Grande Mela assiste da oltre due settimane a una strage impressionante. Anche a New York il personale sanitario lotta in prima fila, come racconta il professor Francesco Rotatori, medico cardiologo al Richmond University Medical Center di Staten Island. Il piccolo ospedale, che normalmente accoglie una quarantina di pazienti in terapia intensiva, con l’esplodere dell’epidemia ha triplicato il numero dei ricoverati, costringendo tutti, lui compreso, a occuparsi delle persone contagiate dal virus. Nonostante, là in America come qui in Italia, i tagli alla sanità abbiano ridotto di molto il personale sanitario e le difficoltà iniziali, come la mancanza di mascherine e di presìdi che hanno fatto ammalare molti infermieri: “Adesso i ricoveri stanno lentamente calando, ma una cosa è certa: New York non sarà mai più come era prima”.



Lei è medico cardiologo e, come è successo a molti in Italia, è stato dirottato per occuparsi di pazienti affetti da Covid-19?

Sì. Lavoro in un piccolo ospedale a Staten Island, dove normalmente in rianimazione abbiamo una quindicina di posti. Nel momento di picco dell’epidemia abbiamo ospitato 60 pazienti intubati, un numero tre volte superiore al normale. Abbiamo dovuto creare due rianimazioni extra e mi sono preso carico di una di queste unità.



Come è la situazione adesso a New York? L’emergenza è sempre alta?

L’emergenza è sempre molto forte, ma fortunatamente rispetto a una settimana fa i numeri dei ricoverati sono diminuiti. Dai circa 60 nelle due settimane di picco adesso siamo a una quarantina. Siamo ancora in emergenza, visto che il numero è più del doppio del solito, ma è più gestibile.

Anche a New York la maggior parte dei decessi sono di persone anziane?

Sì, la maggior parte sono anziani, lungodegenti, moltissimi dei quali arrivati dalle case di riposo. Pazienti con demenza senile o Alzheimer, perché nelle case di riposo è scoppiata una terribile epidemia. Purtroppo, però, abbiamo avuto non pochi deceduti anche tra persone di 40 e 50 anni.



E’ vero che chi è colpito dal virus viene ricoverato e curato gratuitamente, anche se ha un’assicurazione?

Il modello di sanità americana è complicato e in Europa non viene mai correttamente recepito. Non è vero, come si legge spesso, che se al pronto soccorso si presenta una persona con una gamba rotta ma senza assicurazione viene mandata via. No, viene ricoverata e curata comunque. Più problematica la situazione dei malati cronici: ad esempio, chi ha un tumore, che richiede cure lunghe e costose, se non ha l’assicurazione deve pagarle di tasca propria.

Si racconta però che solo per chiamare un’ambulanza bisogna pagare anche 3mila dollari. È vero?

Non esattamente. La prestazione medica ha sempre un conto da pagare, ma dipende dalle condizioni economiche del soggetto: se non è in grado di pagare, non è che l’ospedale gli pignora la casa. Ma più uno è assicurato, più si tende a fargli pagare le spese. Se non si ha un’assicurazione, non si paga niente, perché si applica il cosiddetto emergency medical services, una copertura federale, a disposizione anche di chi non alcun documento. Invece, se uno ha un lavoro e una retribuzione, ma non ha l’assicurazione – e con l’Obamacare si voleva obbligare tutti a essere assicurati – si va su un campo minato. Se invece si ha l’assicurazione, i primi 10mila dollari li paghi il paziente di tasca sua.

Abbiamo anche letto che all’inizio dell’emergenza a New York mancavano respiratori, macchinari, mascherine…

L’emergenza è scoppiata in maniera talmente improvvisa e rapida che, anche se avessimo avuto due settimane di anticipo, organizzarsi non sarebbe stato cosa da poco. Se di solito si utilizzano 150 mascherine al giorno e dal giorno seguente ne servono 3mila, le scorte finiscono molto presto. Tutti le abbiamo finite subito e tutti le abbiamo poi acquistate. In una emergenza come questa o esiste un piano per fronteggiare la pandemia oppure le prime due settimane sono un disastro. Adesso abbiamo tutto quello di cui abbiamo bisogno, ma i ventilatori non sono mai stati un problema. Ci hanno consegnato più del doppio dei ventilatori di cui avevamo bisogno. Il vero problema è che siamo a corto di personale.

In che senso?

Il nostro ospedale ha 120 posti letto e nella fase di picco seguivamo 330 pazienti. Già in partenza, come in Italia, il numero degli infermieri era un po’ basso per via dei tagli e dei risparmi imposti agli ospedali. Poi arriva l’epidemia, ci viene chiesto di raddoppiare il numero dei letti ma una quota di personale si ammala subito, proprio perché mancavano le mascherine, ci siamo ritrovati con il 30% del personale e il 200% di letti in più: il disastro è inevitabile.

In tutto il mondo il personale medico sta compiendo gesti eroici e voi non siete da meno. È così?

La paura c’è, ovviamente, come in tutto il mondo, e anche la stanchezza. Devo dire che siamo riusciti a organizzarci quasi subito, mettendo in piedi gruppi di lavoro per rispondere a ogni emergenza, abbiamo costruito manualmente le separazioni tra i reparti. Abbiamo guardato all’Italia.

Speranze di tornare alla normalità?

Non torneremo alla normalità, quella a cui eravamo abituati, questo è certo. In una città come New York non è immaginabile mantenere la cosiddetta social distance, è una utopia. Dovremo abituarci a un nuovo stile di vita.

(Paolo Vites)

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