I dati diffusi dalla Fondazione Gimbe dicono che i contagi tra il personale sanitario grazie ai vaccini sono crollati in tre settimane del 64%. Secondo il professor Emanuele Catena, Direttore Uoc di Anestesia e rianimazione dell’Ospedale Luigi Sacco di Milano, da noi intervistato, “si tratta di dati sicuramente incoraggianti, ma per quanto ci riguarda, stiamo aspettando la fine della seconda fase di vaccinazione del nostro personale per ottenere dati certi.
In ogni caso, anche alla luce delle varianti del virus che si stanno diffondendo, avere il vaccino non significa abbassare la guardia, anzi, non siamo ancora in grado di dire se il siero Pfizer, da noi usato, proteggerà da qualcuna di queste varianti”.
Leggendo i dati della Fondazione Gimbe, si può dire che il personale sanitario si senta adesso più tutelato nello svolgimento del suo lavoro?
Certamente. Da noi al Sacco è stato vaccinato l’80% circa del personale. Si sta concludendo la seconda fase di vaccinazione con Pfizer, quindi in realtà per avere dati più certi bisogna aspettare ancora una settimana per vedere poi il reale impatto.
Si può dire comunque che i casi di contagio del personale sanitario siano calati?
Sicuramente. Durante la prima ondata, ma anche nella seconda, da noi al Sacco gli standard di protezione sono sempre stati molto alti, tanto che i contagi che sono avvenuti sono quasi tutti riconducibili a rapporti sociali esterni piuttosto che all’interno dell’ospedale.
Vi sentite comunque protetti grazie al vaccino?
Ci dà una certa tranquillità sapere di essere vaccinati, è evidente però che sarebbe un gravissimo errore abbassare la guardia. In questo senso continuiamo a lavorare in terapia intensiva, dove l’afflusso dei pazienti è continuo, con tutti i sistemi di protezione che abbiamo sempre adottato. Il nostro atteggiamento non si è modificato.
Stiamo però assistendo al diffondersi delle varianti del virus, che ha colpito diverse regioni italiane. Angela Merkel ha detto che sottovalutare questo aspetto può portare alla terza ondata di contagi, è così? Voi avete pazienti colpiti da una delle varianti?
Al momento nella nostra rianimazione su 12 pazienti ne abbiamo uno con una variante. È ancora in corso la determinazione per capire di quale tipo di variante si tratti. Quello che abbiamo notato è una manifestazione gravissima a livello polmonare della malattia.
Quindi le varianti possono portare a un peggioramento delle condizioni delle persone rispetto al virus che conoscevamo?
Le varianti ci preoccupano. Ha ragione la Merkel a dire che bisogna stare attenti, non sottovalutiamole nemmeno in termini di attenzione del personale, perché attualmente la sicurezza che il vaccino ci possa proteggere da tutti i tipi di variante non c’è. Ci dispiace molto per loro, ma sarà decisivo vedere cosa succede ai colleghi che lavorano nelle zone dove ci sono stati dei cluster di varianti per vedere la capacità di protezione del vaccino.
Non si capisce perché certe regioni sono colpite e altre no. Secondo lei?
Non ci sono dati ufficiali, però sembra che le varianti inglesi siano pochi casi che abbiamo in Umbria, ma anche a Brescia molti di questi pazienti hanno avuto contatti, è qualcosa quindi riconducibile a un viaggio.
Sarà importante monitorare ciascun caso?
Assolutamente sì. In Italia rispetto ad altri paesi europei abbiamo avuto difficoltà nel sequenziamento, adesso questa attività è stata potenziata per capire il comportamento di queste varianti, che fino a qualche giorno fa studiavamo poco.
I cocktail di medicinali che si usavano nella prima fase sono ancora in uso?
Ci sono stati vari cocktail nella prima ondata, i farmaci antivirali che venivano provati tutti e che oggi nelle terapie intensive non vengono più applicati. Poi gli anti-aggreganti con la novità importante dell’utilizzo dell’eparina a basso peso molecolare sotto la cute. Questa viene tuttora usata, fa parte delle terapie. Anche il cortisone rimane in uso e nelle fasi acute della malattia è importante ancora oggi il cambiamento di postura del paziente nei primi tre giorni. La novità maturata nel tempo è anche che con i pazienti più gravi cerchiamo di privilegiare la ventilazione non invasiva con il casco, ritardando il più possibile l’intubazione, perché si è visto che si hanno risultati migliori.
(Paolo Vites)
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