“Dall’Ucraina al Medio Oriente, passando per il Sudan e il Congo, queste crisi rappresentano un profondo disordine del sistema internazionale, dovuto alla frammentazione del mondo e alla deregolamentazione della forza. Sono segni di un fallimento globale”. A dirlo è Dominique de Villepin, diplomatico francese di lungo corso, ministro degli Esteri poi dell’Interno, primo ministro della Repubblica francese dal 2005 al 2007 con Jacques Chirac all’Eliseo, ma anche fine intellettuale, appassionato di storia napoleonica, di poesia, in particolare di Arthur Rimbaud. A de Villepin è stato recentemente consegnato il Premio Nonino 2025, per “il suo vibrante appello – così recita la motivazione – a non rassegnarsi all’inevitabilità della guerra e al ricorso alla forza; un appello continuo a trovare una via diplomatica per la soluzione dei conflitti”.
Il Sussidiario lo ha intervistato, cominciando proprio dalle ragioni di quel fallimento. “È un fallimento morale, con l’abbandono di principi fondamentali come la dignità, la giustizia e il riconoscimento dell’altro; un fallimento politico e diplomatico, radicato in una visione dominata dalla forza e dalla paura. Infine, un fallimento culturale, forse il più grave, poiché restiamo incapaci di rompere con dinamiche sterili di disumanizzazione, crudeltà e radicalizzazione. La sfida è immensa. In questo contesto l’Europa deve, più che mai, rimanere fedele alla sua vocazione: difendere un modello basato sul diritto e non sulla forza, sostenere una visione che non può essere ridotta ai soli interessi dell’Occidente, affermare una sua vera sovranità e rivedere le relazioni strategiche con i diversi blocchi”.
De Villepin è noto soprattutto per il suo storico discorso tenuto al Consiglio di sicurezza dell’Onu nel 2003, quando si schierò contro la guerra americana in Iraq, andando in rotta di collisione con George W. Bush e con i neocon che allora guidavano gli Stati Uniti. De Villepin è un pacifista realista. In tema di politica internazionale potrebbe, a vent’anni di distanza, vantare a ragione il titolo di Cassandra, visto che l’utopia di un Nuovo Ordine mondiale unilaterale ci ha portati a questo diffuso disordine. E oggi ha di nuovo idee molto chiare sugli Stati Uniti di Trump e sugli errori dell’Europa di Ursula von del Leyen.
La presidenza Trump è cominciata, e sono emersi segnali abbastanza chiari. Qual è la sua opinione?
L’America non può pensare di instaurare un ordine mondiale attraverso la sua potenza militare. Donald Trump dichiara di voler evitare la guerra, però adotta il linguaggio dei Paesi autoritari: quando evoca una presa di controllo della Groenlandia, del Canale di Panama, quando parla di una fusione degli Stati Uniti con il vicino Canada usa lo stesso linguaggio che ha usato Putin nei confronti dell’Ucraina: l’idea di creare delle “zone d’influenza” delle potenze globali. È cambiata la postura della potenza americana che alla sua forza politica, militare, economica e finanziaria aggiunge oggi la potenza tecnologica. La presenza attorno al presidente di tutti gli imprenditori dell’alta tecnologia, tecno-profeti come Elon Musk, Peter Thiel o Mark Zuckerberg, mostra bene che sta avanzando l’idea di una dominazione del mondo attraverso la tecnologia. Gli Stati Uniti in questo momento non fanno neppure molta differenza fra avversari e amici, a volte rispettano più gli uomini forti che i propri alleati deboli, ai quali vogliono imporre le loro scelte. Il punto è sapere se noi europei accettiamo di vivere sotto la dominazione americana, per la quale un mercato come il nostro, 450 milioni di consumatori, è attraente: in questo momento noi non abbiamo delle industrie tecnologiche in grado di competere con le loro, per questo l’Europa oggi deve combattere una battaglia per una vera sovranità in materia di difesa, in materia economica ma soprattutto per avere di nuovo dei campioni industriali.
Sta dicendo che l’atteggiamento politico dell’Europa dovrebbe cambiare?
Completamente. Dobbiamo aprire gli occhi di fronte a una nuova situazione. La cosa inquietante è che non solo l’Europa non si è preparata a uno shock del genere, ma sta abbordando questa nuova America in ordine sparso: a Washington in questo momento è andato un solo capo di governo europeo, la signora Meloni. Bisogna invece essere uniti. È la condizione della nostra stessa sopravvivenza, perché l’Europa non rischia solo di indebolirsi ma veramente di sparire, di diventare una dépendance, una colonia degli Stati Uniti. Dobbiamo unire le nostre forze. Se i tedeschi vogliono difendere a tutti i costi le loro automobili, se i francesi vogliono difendere a qualsiasi prezzo il loro cognac, se l’Italia vuole usare autonomamente la tecnologia di Elon Musk su Starlink, siamo finiti. Non solo non ci sarà più l’Europa, ma noi finiremo per diventare il campo di battaglia di questo confronto/scontro tra l’America e la Cina. Proprio come oggi lo è l’Ucraina.
In effetti, non a caso quella linea di frizione si è aperta proprio in Europa.
L’Europa deve rappresentare per il mondo un modello alternativo. L’America oggi è il modello della forza e della potenza, la Cina è un modello collettivista, che privilegia l’approccio di controllo della società attraverso le tecnologie, attraverso la politica, attraverso il Partito comunista. Noi rappresentiamo storicamente un modello sociale fondato sullo Stato di diritto, sulla difesa di certi valori. Non c’è una vita che vale più di un’altra, ed è per questo che dobbiamo rifiutare il doppio standard, l’usare due pesi e due misure: non possiamo dire che in Ucraina respingiamo l’aggressione russa e al tempo stesso dire che a Gaza la situazione è differente e la accettiamo perché Israele deve difendere la propria sicurezza. Dobbiamo sostenere lo stesso principio di giustizia ovunque. E a partire da questa esigenza universale dobbiamo costruire una comunità internazionale nuova. Perché l’ordine stabilito dagli Stati Uniti e dall’Urss nel 1945 è morto, e ora bisogna crearne uno nuovo.
Sulla base di quali principi?
Il fulcro deve essere la giustizia. A partire dal riconoscimento che va dato a uno Stato palestinese, per riparare quello che è stato fatto nel 1947-48. Dobbiamo rivolgere a tutto il mondo il messaggio che per l’Europa la giustizia non è negoziabile. Noi non ci sottometteremo a una forma di dominazione pratica, che sia americana o cinese, non accetteremo la vassallizzazione dell’Europa in nome di una pretesa sicurezza che l’orbita del potere americano garantirebbe, magari tentando un’illusoria negoziazione bilaterale. Questo è il punto chiave per l’Europa, la sua unità: con tutti i partner globali, la Cina, gli Stati Uniti, il Sud del mondo, l’India noi dobbiamo essere capaci di ritrovare uno spirito di apertura, una capacità di parlare a tutti, difendendo le nostre idee.
Israele in Medio Oriente è a suo modo una superpotenza. Può vincere militarmente, ma rischia di non essere mai in pace.
Esattamente. L’uso della forza militare permette a Israele di rinforzare la sua sicurezza, ma solo momentaneamente. Ha dovuto affrontare la Guerra del 1948, quella del ‘56, la Guerra dei sei giorni del ’67, quella del Kippur del 1973, 14 guerre a Gaza e ancora non ha pace. L’opzione militare permette, sì, di ristabilire un rapporto di forze e di esercitare una dissuasione, ma non permette di fare di un nemico un partner. Occorre invece cercare la pace, se noi non ripariamo i torti inferti ai Palestinesi nel cuore del Medio Oriente ci sarà sempre una ferita che condurrà alla guerra. Israele deve accettare di riconoscere lo Stato palestinese in modo che si instauri un equilibrio durevole. I popoli arabi, i Paesi musulmani di quella regione non accetteranno mai di lasciare senza risposta la questione palestinese.
Cosa dovrebbe fare l’Europa?
Noi europei dobbiamo partecipare alla creazione di un interlocutore – l’ala moderata dell’Olp, al-Fatah – che non siano i terroristi, ma se non troveremo una soluzione politica avremo sempre più violenza verso Israele. È stato deciso un cessate il fuoco a Gaza, ma ogni giorno la violenza aumenta in Cisgiordania, a Jenin i coloni israeliani sono sempre più aggressivi. Non usciremo dall’escalation se non trasformiamo politicamente la guerra, e anzi lo scontro non si giocherà più sulla rivendicazione territoriale ma si sposterà sul piano della religione e del fanatismo: dal lato israeliano gli ultra-ortodossi, con il loro messianismo, fanno già parte del governo di Benjamin Netanyahu, e ugualmente i più violenti delle fazioni palestinesi si radicalizzano sul piano religioso. Se non vogliamo che questo conflitto diventi sempre più violento dobbiamo trasformarlo in un confronto che può trovare risposte attraverso la politica.
(Carlo Dignola)
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