Nell’orrore delle guerre attuali c’è un aspetto poco sottolineato. Tra manifestazioni e cortei che attraversano l’Italia in una stanca liturgia che niente ha che fare con la realtà, ma molto con una scontata rappresentazione teatrale, poco spazio è lasciato all’analisi, alla ricerca su che cosa muova gli elementi di fondo, alla ricerca di quelle trasformazioni radicali che segnano le società a prescindere dalle preferenze politiche, dai gusti, idiosincrasie e quant’altro. Perché la guerra è un potente, rapido e totalizzante acceleratore di cambiamenti economici e tecnologici di valenza epocale.
Max Weber, in Sociologia delle religioni, a proposito della mancata nascita del capitalismo in Cina osserva che, dopo aver raggiunto la pacificazione, all’impero cinese “è mancata la guerra razionale” e la “pace armata tra più Stati” in concorrenza tra loro e che determina i “fenomeni capitalistici” dei “prestiti di guerra e le forniture belliche allo Stato”.
Weber non era un guerrafondaio, ma era interessato a capire come funzionano le società senza veli e ipocrisie. Quando morì nel 1920, l’opera non era ancora uscita, la Prima guerra mondiale era appena finita con le sue conseguenze devastanti che sfidarono la capacità di tenuta degli Stati. Trasformazioni politiche e nell’arena internazionale si fusero assieme a enormi sommovimenti sociali ed economici. Basti pensare allo sviluppo e partecipazione di movimenti di massa alla vita politica mai prima d’ora avvenuti, oppure all’impulso all’industria, appunto, massificata. Con la conseguenza di incrementare un nesso sempre più pervasivo tra Stato e società, tra Stato e industria.
È vero, i passaggi non furono repentini e immediati, né tanto meno uguali in tutti gli Stati coinvolti. Ma l’ascesa al potere dei totalitarismi, dal fascismo al comunismo passando per Hitler, hanno tutti in comune l’accrescimento del ruolo dello Stato e la partecipazione alla cosa pubblica di masse impressionanti seppur in modo distorto. Anche sul piano dei rapporti internazionali i cambiamenti non furono immediati, ma il cambio di mano dello scettro imperiale, dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti che avverrà dopo la Seconda guerra mondiale, era già manifesto dopo Versailles e lo stesso si dica per la fine dei vecchi imperi coloniali europei.
Anche le guerre contemporanee portano con sé trasformazioni profonde sia sul piano strategico che su quello tecnologico e quindi economico e, a cascata, sulla società. L’impiego sul campo dell’AI ha portato una vera rivoluzione negli affari militari già intuita alla fine degli anni Settanta dell’altro secolo dal generale russo Nikolai Orgakov e poi fatta propria dall’esercito americano a partire dalle riflessioni della prima guerra del Golfo.
Ed eccoci al presente, dominato da droni, satelliti, simulatori e un’industria bellica a doppia valenza militare e civile, ma anche dal ridisegno dell’economia globale, con un accorciamento delle catene di approvvigionamento delle materie prime e della produzione.
La guerra russo-ucraina ha segnato un ulteriore cambiamento epocale. L’entrata sulla scena europea direttamente di attori asiatici. Non è folclore la partecipazione di soldati nordcoreani sui campi di battaglia europei. E fa impressione la proposta, appena accennata, della Cina di inviare truppe a garantire il cessate il fuoco.
Che la guerra in Occidente apporti cambiamenti con valenza totale non è una novità. La guerra dei Trent’anni (1618-1648), che peraltro durò qualche decennio ancora, apportò trasformazioni impressionanti in tutti gli ambiti sociali. La rivoluzione militare degli orangisti si affiancò all’affermazione di nuovi principi di legittimazione del potere, segnò la nascita dello Stato moderno, del sistema internazionale degli Stati e l’ascesa di nuove potenze.
Anche adesso siamo davanti ad un mondo nuovo, non migliore. I cambiamenti già si vedono. La grande differenza, anch’essa una novità, è la velocità con cui le trasformazioni avvengono. Infatti le vecchie istituzioni democratiche occidentali faticano a stare al passo fino a risultare inadeguate. Da qui una sfida enorme alle classi dirigenti, che parte dal dimostrare consapevolezza della realtà per arrivare all’offerta di soluzioni e alla capacità progettuale.
Da qui il fenomeno Trump, quella scomposta e inelegante manifestazione di aggressività, imprevedibilità, ma con due o tre basi solide e assemblate in modo originale: tradizionalismo nei valori, ma anche visionarietà iper-tecnologica (Musk). America first, ma mondo da spartire con Cina e Russia. Lotta per l’egemonia tra super-potenze, ma da giocarsi sul piano industriale e commerciale. Una visione selvaggia, aggressiva, ma soprattutto rapida, che vuole essere capace di adattarsi ai cambiamenti senza l’infinita mediazione degli apparati, interessati al mantenimento dello status quo.
Insomma Trump dovrà dimostrare se appartiene al mondo di ieri o se il suo progetto politico ha la capacità di affrontare la rivoluzione in atto.
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