Bambini e genitori traumatizzati, ragazzi senza contatti sociali perché il Covid e poi la guerra li hanno tenuti lontani anche dalla scuola. Con questa realtà, in Ucraina, si confrontano quotidianamente gli operatori di AVSI, che svolgono le loro attività in centri anche vicini alla linea del fronte. La gente, racconta Gabrielle Salemme, project manager di AVSI, cerca di convivere con la guerra, con i ripetuti allarmi che annunciano attacchi missilistici, ma anche con la mancanza di elettricità, effetto dei bombardamenti russi alle infrastrutture, e di acqua. Eppure reagisce, cerca di sopravvivere, ricordando i morti al fronte. È gente stanca dei combattimenti, ma che non sa rassegnarsi alla sconfitta. Molti hanno lasciato le loro case nei territori occupati e non vedranno più gli anziani genitori, che non se la sono sentita di andarsene. I ragazzi spesso non hanno amici e sono contenti quando, grazie ai centri di AVSI, riescono a trovare qualcuno con cui giocare o condividere interessi. E per molti di loro il desiderio più grande sarebbe proprio tornare a scuola, per incontrare in classe persone della loro età.
Dove è presente AVSI in Ucraina e con quali progetti?
AVSI è presente dal 2022 con quattro progetti ed è operativa in sei oblast: Poltava, Kharkiv, Dnipro, Zaporizhzhia, Mykolaïv e Odessa. Il lavoro si basa su centri comunitari, strutture dove forniamo servizi educativi e di protezione: ne abbiamo 14 in 5 regioni.
Che tipo di assistenza date alle persone nei vostri centri?
Abbiamo team di insegnanti, psicologi, assistenti sociali. Garantiamo prima di tutto lezioni di recupero scolastico perché dal 2020 i ragazzi fanno lezioni solo online, ma anche servizi psicosociali: il conflitto ha lasciato il segno su bambini e genitori. Ci occupiamo di fornire supporto e visite psicologiche a piccoli e adulti, che spesso hanno disturbi post traumatici da stress. Per i casi più gravi ci appoggiamo a strutture specifiche.
Di quali altre necessità vi occupate?
A volte semplicemente si scopre che un bambino ha problemi di vista. Lo facciamo visitare e gli compriamo gli occhiali: le famiglie non hanno la disponibilità economica e l’attenzione per queste cose. I genitori che lavorano fanno fatica a seguire i bambini; se non lavorano, hanno difficoltà economiche. Ci sono anche gruppi di supporto per i genitori. Gran parte del nostro lavoro è finalizzato a ricreare socialità fra i minori: a causa di Covid e guerra, i bambini non vanno a scuola da tempo e hanno difficoltà a stare tra di loro. Organizziamo attività artistiche e sportive, dove insegnanti e psicologi cercano di sopperire alla mancanza di socialità.
Dove sorgono i vostri centri, sono vicino al fronte?
Lavoriamo in tutte le regioni di guerra, da Kharkiv a Odessa, e tre centri sono molto vicini al fronte. A causa dello spostamento della linea del conflitto, abbiamo trasferito alcuni centri più all’interno per evitare rischi, ma anche per garantire sostenibilità alle attività che facciamo. Abbiamo un centro nella periferia sud di Kharkiv, e anche quelli che non sono in prossimità della linea del fronte sono vicini, parliamo di 50 chilometri. Selezioniamo le location in relazione al numero di sfollati interni e ai bisogni delle comunità, che ci vengono comunicati anche dalle Nazioni Unite.
Quali sono i bisogni principali, a cosa date priorità?
Ci si concentra maggiormente sul futuro dei minori dai 5 ai 17 anni. Non vanno a scuola da quattro anni e i nati nel 2014 hanno visto le loro classi poche volte. Ci sono bambini nella zona di Zaporizhzhia che sono andati a scuola un paio di volte. Dopo i danni provocati in estate alle infrastrutture energetiche, ora che sta arrivando l’inverno c’è grande preoccupazione. Nei nostri centri abbiamo generatori o power station, dove si possono attaccare prese per utilizzare stufe elettriche. Le power station costano molto, per quelle più grandi, per ufficio, si pagano anche mille dollari. A casa, le persone non hanno queste strutture. Ci sono dei blackout per tenere sotto controllo l’energia: quando serve più elettricità viene centellinata, può mancare anche per 12 ore al giorno. C’è una tabella con orari di utilizzo per ogni zona. Ci sono problemi anche con il gas.
Acqua e cibo ci sono o si registrano problemi?
Ci sono zone dove manca l’acqua potabile e la struttura dei servizi che la trasporta ha aumentato i prezzi. L’agricoltura ha subito danni, anche per il cambiamento climatico: questa estate ci sono stati 40 gradi e poca pioggia. L’inflazione ha fatto il resto. I prezzi rispetto all’Italia sono ridotti, ma sono bassi anche i salari: quello minimo è sui 180 dollari al mese. E un treno da Kiev alla Polonia costa sui 50 euro.
Vi occupate anche di fornire generi alimentari?
Non distribuiamo cibo. In Ucraina si trova di tutto: parmigiano, prosciutto crudo, formaggi, pasta italiana, ma un ucraino difficilmente compra pasta a 2 euro. Nelle grandi città tendenzialmente non manca niente, poi ci sono villaggi in cui il benzinaio più vicino è a un’ora di macchina.
I vostri interventi si svolgono anche lontano dai centri comunitari?
Altra componente dei nostri progetti sono le unità mobili, grazie alle quali psicologi e insegnanti raggiungono comunità ancora più rurali, posti con pochissime case ma tantissimi bambini, realtà impressionanti, lontanissime dalla cittadina più vicina. Luoghi che erano isolati anche prima della guerra e lo sono ancora di più oggi, perché vicini al fronte. Lavorando a Kharkiv o Dnipro raggiungiamo il confine con l’oblast del Donetsk, dove, per decisione delle autorità del posto, sono cessate le attività destinate ai bambini. Da maggio abbiamo dovuto chiudere un centro per lo spostamento della linea del fronte.
Ma la gente come vive la guerra, come ne parla?
La gente è stanca. In un conflitto che va avanti da due anni e mezzo, sentire l’allarme è diventata la normalità. Ci si abitua alla guerra. In alcuni luoghi l’allarme suona dieci volte al giorno e la durata del rischio può essere di 10 minuti come di 12 ore. Anche per questo è irrealistico che la vita si fermi. Per chi viene dall’estero fa molta impressione vedere come si comporta la gente: se uno non sapesse che c’è la guerra, potrebbe pensare di essere in qualsiasi parte d’Europa.
Cosa si conosce del conflitto?
La guerra viene seguita sugli infiniti gruppi Telegram, prima fonte di aggiornamento. Se suona l’allarme, la prima cosa che si fa è vedere su Telegram qual è la direzione del missile lanciato. Non si vede una reale fine del conflitto e le persone non sembrano prendere in considerazione la sconfitta. Qualcuno, fuggito dai territori occupati, rivuole casa sua, ma sa che ormai ci abitano i russi e che magari hanno già distrutto tutte le sue cose. Chi vive nei territori occupati è un cittadino russo, i satelliti cui si agganciano i telefonini sono russi. Viene bruciato tutto ciò che ricorda l’Ucraina.
Il Paese ha dovuto sopportare la morte di molti soldati. Quanto pesa il loro ricordo nella vita delle persone?
Vengono chiamati eroi e tutti li ricordano. In ogni cittadina ci sono memoriali ai caduti con foto e nomi, da Kiev alla cittadina più piccola. Chi ha lasciato i territori occupati a volte ha dovuto lasciare i suoi cari: i nonni restano, figli e nipoti se ne vanno. Gli anziani a volte preferiscono restare: vogliono morire a casa loro, anche se sono costretti a diventare russi.
(Paolo Rossetti)
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