Chiunque sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti, dovrà affrontare sfide terribili, un mondo in profonda trasformazione, a velocità impressionante, di cui nessuno sembra in grado di decifrare la rotta, né tanto meno offrire una chiave di lettura. A mancare sono sia gli statisti, i Kissinger per intenderci, sia i filosofi, da Husserl a Spengler, che seppero offrire un orizzonte filosofico più vasto della contingenza. Insomma sembrano assenti sia il pensiero che i soggetti pratici attivi. E sui motivi di questa assenza c’è da riflettere. Infatti, pieni sono i saggi sul silenzio di proposte globali, basti pensare ad esempio all’afonia teutonica sui grandi problemi di importanza mondiale che affliggono l’Europa a partire dalla guerra in Ucraina.
La complessità e la difficoltà della situazione risiedono tutte nel rapporto intricato tra crisi regionali e nessi globali, tra problemi di sicurezza e meccanismi di funzionamento del sistema mondo, ormai diventato uno per per lo meno tre motivi. La globalizzazione economica e finanziaria, lo sviluppo tecnologico che ha prodotto un esoscheletro che tutto e tutti avvolge, e l’avvento delle big company tecnologiche con bilanci più grandi di molti Stati nazionali.
Entro queste dinamiche incontrollabili che viaggiano su binari propri, si muovono i vecchi Stati-nazione, che ancora gestiscono il tema “sicurezza” con la logica novecentesca ormai non più in grado di rispondere in modo efficace alle sfide e costretta a rincorrere gli eventi e a ricorrere a un patrimonio anche retorico obsoleto.
Fa impressione la lettura delle crisi mondiali attuali secondo occhiali da Guerra fredda, che prova a chiudere i conflitti entro lo schema dello scontro democrazia contro totalitarismo, libertà contro barbarie!
Così le elezioni presidenziali in America diventano lo scontro tra isolazionisti e interventisti democratici, secondo la tradizione wilsoniana. Con Trump, impresentabile pel di carota, che vorrebbe volgere le spalle al mondo e chiudersi nel nuovo continente protetto dagli oceani.
Allora forse è utile andare a leggere An America First Approch to U.S. National Security, a cura del generale Keith Kellogg, già capo dello staff del Consiglio di sicurezza nazionale nella passata presidenza Trump. Con una premessa ovvia ma necessaria: le osservazioni sulla sicurezza di un consigliere prima delle elezioni non sono la politica estera del presidente, tanto meno di uno come Trump, che sembra totalmente imprevedibile.
Tre i punti particolarmente importanti. Lo scopo del saggio è ambizioso e drammatico, dato che gli autori sono sicuri che con Trump si sia aperta una nuova era nella sicurezza nazionale americana, mentre il mondo si trova in una fase di prewar che gli USA devono dimostrarsi in grado di gestire, innanzitutto difendendo il proprio Paese. Il punto di partenza è la lettura fallimentare da parte delle amministrazioni democratiche al tema della sicurezza, a partire dalla fine della guerra fredda, che aveva lasciato in eredità a Washington una supremazia assoluta, militare, economica, diplomatica, patrimonio adesso dissipato e messo in discussione. Il fallimento di Clinton e Obama è da attribuirsi ad un mix di hubris e ideologia. Liberismo, economicismo, certezza nelle doti miracolose della globalizzazione, sinonimo di libertà e pace, certi che multilateralismo di per sé equivalesse a maggiore sicurezza, i presidenti democratici hanno portato il Paese al disastro. A far percepire al resto del mondo l’“indispensabile nazione” come “debole, incerta e senza timone”.
Gli esempi di questa debolezza sono “miriadi”. Perso il predominio dei mari, come dimostrano gli attacchi degli Houthi, dove la flotta USA non è in grado di garantire quella libertà di navigazione che è il pilastro della supremazia anglosassone dai tempi della lotta dell’Inghilterra contro la Spagna e come declamato dall’inno dei Marines. È un ricordo anche la supremazia industriale americana, che non riesce a far fronte alle necessità belliche, si veda il caso della produzione di proiettili da inviare in Ucraina. Stati Uniti dunque deboli nella risposta anche a casa propria, dove non riescono a far fronte alle sfide dei cartelli del narcotraffico messicano. Ma soprattutto appaiono incapaci di far fronte alla sfida centrale, cioè impreparati ad affrontare lo sfidante globale, la Cina.
Questa debolezza non è casuale o frutto solo della forza degli avversari degli Stati Uniti, ma è frutto della scelta di uno specifico gruppo di potere che ha privilegiato i propri interessi a quelli della nazione, che i repubblicani con Trump in testa possono e debbono capovolgere. “America first” significa che nessuna tribù del deserto, nessun cartello messicano, nessuna fanteria russa né partito comunista cinese possano mettere in discussione la forza e il primato americano. Spietato il giudizio su Biden, la cui “incompetenza” ha ridotto il mondo a un livello di insicurezza mai visto prima, un mondo “senza dubbio più instabile”, con le parole del generale Kellogg, “un mondo in una situazione perigliosa mai vista dal 1939”.
Per quanto riguarda l’Ucraina, altrettanto duro è il bilancio di questa presidenza democratica, accusata di non aver saputo gestire il conflitto con la Russia in nessun momento, né prima, né adesso che la guerra si trova in una situazione di stallo senza che gli USA propongano una via di uscita. Con l’aggravante che la guerra in Europa distoglie l’attenzione e le energie di Washington dal problema e dalla minaccia principale, ancora la Cina.
Al di là delle proposte politiche per risolvere le crisi regionali, la soluzione che i consiglieri repubblicani offrono è che gli USA devono ricostruire al più presto un livello maggiore di deterrenza e di sicurezza andato perduto.
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