Fra le vittime delle bombe di Putin ce n’è una non prevista in casa nostra. A finire polverizzata è la presunta ritrovata grandeur italiana in politica estera. In questa crisi drammatica e imprevista il nostro Paese arranca, relegato sostanzialmente in seconda fila, nonostante un premier di indubbio prestigio come Mario Draghi.



Ci eravamo fatti qualche illusione nel corso del 2021. Avevamo visto un recupero di prestigio e di peso politico a livello europeo, cosi come sul piano più generale. Il G20 a presidenza italiana era parso un indubbio successo, ed anche nella conferenza sul clima di cui abbiamo avuto la copresidenza, e al livello di G7 l’Italia di Draghi aveva dato l’impressione di essere tornata protagonista. Merito, si diceva, dell’autorevolezza del presidente del Consiglio.



Nel momento in cui la tensione fra Russia e Ucraina è salita alle stelle, questa credibilità personale non è più bastata. A provare a trattare con Putin e a mediare con Kiev sono stati Francia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti. L’Italia si è mossa tardi e si è parlato di un viaggio di Draghi a Mosca quando le cose stavano ormai precipitando.

Eppure si tratta di una partita in cui l’Italia avrebbe dovuto essere tenuta in maggior conto, essendo nella Ue il terzo partner commerciale di Mosca, dopo Germania e Olanda, e prima della Francia. Evidentemente il ruolo economico da solo non basta. Nonostante Draghi abbia saputo imprimere alla politica estera italiana una netta svolta filoeuropea e filoatlantica sostanziale, evidentemente ancora non basta.



L’Italia appare a rimorchio soprattutto della Francia, in questo momento particolarmente vicina, dopo la firma a novembre del trattato del Quirinale. Proprio la mattina in cui è scoppiata la guerra il ministro degli Esteri francese Le Drian era atteso a Roma per partecipare al nostro Consiglio dei ministri, come previsto da quell’accordo. Nelle scorse settimane Draghi aveva lasciato a Macron da leggere il testo dell’intervento all’incontro fra Unione Europea e Africa, per tornare di corsa a Roma e sedare le fibrillazioni della sua maggioranza. Ma lunedì sera presunti “problemi tecnici” hanno impedito il collegamento con l’Eliseo, dove a cena discutevano di Ucraina Macron, Scholz e von der Leyen.

L’illusione che parte della nostra politica ha coltivato di potersi considerare nel “nocciolo duro” della nuova Europa al fianco di Francia e Germania esce fortemente ridimensionata da questa crisi. Evidentemente servono anni di duro lavoro per costruire (anzi, forse, ri-costruire) una credibilità come paese. Non bastano neppure decine di contingenti di pace in giro per il mondo, o la disponibilità immediata a fornire migliaia di uomini alla Nato. 

Draghi ha mosso l’Italia nella direzione giusta, ancorandola saldamente all’Occidente. Ma anni di ondeggiamenti fra Cina e Russia per via di grillini e leghisti pesano ancora. La scelta di campo non può essere messa in discussione, anche se è legittimo perseguire il proprio interesse nazionale. Lo fanno tutti gli altri paesi, che però non vengono accusati di intelligenza con potenze ostili, come accaduto quando vennero siglati gli accordi sulla “nuova via della Seta” con Pechino. 

Se vuol davvero tornare a pesare, l’Italia deve proseguire sulla via indicata da Draghi, ma per vederne i frutti ci vorranno tempo, impegno e coerenza. Un Draghi, da solo, non fa primavera, è una questione complessiva di credibilità.

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