Le ultime fasi della battaglia di Soledar, nella provincia orientale ucraina di Donetsk, sembrano quasi passare in seconda fila nelle notizie importanti di questi giorni. Si prevede ormai, in modo quasi scontato, che la guerra nata dopo l’invasione russa dell’Ucraina possa durare ancora due anni. Mentre Mosca e Kiev comunicano gli aggiornamenti della battaglia in corso, o magari già sostanzialmente finita, si resta senza fiato, allibiti da una realtà tragica che non si riesce ad accettare e ad affrontare per risolvere in modo dignitoso.
La guerra è uno degli aspetti più inquietanti e drammatici, l’esatto contrario di quello che dal 1988 è stato chiamato “processo di globalizzazione”, che prometteva e prevedeva, secondo la maggioranza della classe dirigente di tantissimi Paesi, benessere diffuso, crescita, cooperazione e sviluppo sostenibile per il mondo intero.
Un anno dopo quella data di “globalizzazione sperata”, cadeva anche il Muro di Berlino, accentuando le speranze, tanto che i regimi democratici raggiungevano, sopratutto in Europa, il massimo della loro espansione. Dopo poco più di trent’anni, l’area democratica si è ridotta ed è quasi difficile da calcolare in percentuale, con una precisazione condivisa in tante parti del mondo: esiste ormai una crisi stessa, anche profonda, della democrazia. Un fatto che, senza tanti giri di parole, pone tanti interrogativi, mentre parlamenti e partiti politici sembrano fattori quasi marginali del mondo democratico che su di loro era stato principalmente fondato.
A tutto questo si deve inevitabilmente aggiungere, come una cornice in cui si è costretti a vivere, un clima di sfiducia che raramente si è vissuto in passato.
Rispondendo alle domande fattegli dal Sussidiario, il professor Enzo Risso, docente alla Sapienza di Roma e direttore scientifico dell’Ipsos, dice che in Italia c’è un “fardello di sfiducia diffuso” e indica nella guerra e nel clima la fonte di maggiore preoccupazione con effetti di ansia e rabbia per la perdita del lavoro, per l’aumento delle diseguaglianze sociali.
Impressionante è poi la risposta della sfiducia verso le cosiddette élite, che vengono identificate nella classe dirigente: politica, imprese, banche, “il mondo di quelli – dice Risso – che per capacità economiche o intellettuali sono la parte alta della società”.
È una fotografia sociale, un’immagine che, rispetto alle scelte e alle promesse, fatte trenta anni fa o più, lascia senza parole e spiega i fallimenti che si vivono non solo in Italia, ma in quasi tutto l’Occidente europeo, senza risparmiare pensieri preoccupanti anche per l’altra parte dell’Oceano, gli stessi Stati Uniti con la presidenza di Donald Trump e il “trumpismo”, che ancora sopravvive e sembra fare scuola in Sudamerica.
Quale è il problema principale, a questo punto, da affrontare visti i risultati di questi anni? L’Italia è dal 2000 che cresce a un tasso ridicolo, inferiore all’1%, e solo un rimbalzo, dopo la pandemia del Covid, ha riportato a numeri credibili di crescita, che sono già ridimensionati per i prossimi anni. Rispetto a tutto questo, è impressionante che nel 1986 l’ Italia avesse superato la Gran Bretagna come potenza industriale, diventando la quarta al mondo, mentre ora è retrocessa di almeno quattro o cinque posti nel valore del Pil. E, ripetiamo, è oltre tutto circondata da sfiducia all’interno e all’esterno, come documentano analisti e osservatori.
Parliamo dei numeri dell’Italia e della situazione complessiva italiana perché è quella a noi più vicina, ma se noi spostiamo la crisi epocale all’Europa, in cui siamo coinvolti e ci interessa particolarmente, non è che notiamo molta differenza.
Zoppica, non solo politicamente, la Francia. Si può parlare di crisi in Germania. E il gruppo dei Paesi che fanno parte dell’Unione Europea sembrano distinguersi più in divisioni che in unità. Solo la battaglia contro il Covid e il successivo Pnrr hanno ridato una parziale fiducia, così come una sostanziale compattezza a fianco dell’Ucraina. Ma la questione di un’Europa unita politicamente, in senso pieno, funzionale e solidale in tutto quando arriverà?
La sensazione è che la classe politica europea si specchi nella classe politica italiana e viceversa. Come del resto è normale che sia in una crisi sociale e culturale di carattere generale.
Il fattore più evidente sembra la mancata sostituzione alla caduta delle ideologie di visioni politiche e sociali che sapessero legare la memoria del passato e l’evoluzione in corso, verso il futuro politicamente possibile.
Erano i partiti che rappresentavano un momento di discussione sul passato, una spiegazione del presente e uno sguardo sul futuro, concepito con scelte il più possibile condivise. Tutto questo sembra non esistere più. È soprattutto la crisi dei partiti, particolarmente in Italia, ma non solo, che spiega la portata della crisi.
Le tante parole d’ordine nuove, le battaglie per i diritti civili, per l’ambiente, contro la violenza alla donne, per la sostenibilità e tutto quello che occorre nel mondo in piena evoluzione sono certamente importanti e quasi indispensabili. Ma non si può dimenticare il passato dove si sono ottenuti risultati importanti: la sicurezza di un posto di lavoro, un’equilibrata garanzia di quello che è sempre stato chiamato “l’ascensore sociale” in campo lavorativo e in campo culturale.
Per decenni, dopo la fine della seconda guerra mondiale, i partiti hanno garantito, pur tra errori e scelte sbagliate, la spinta per un benessere sociale migliore nazionale e per una migliore cooperazione internazionale. Basta ricordare uomini come Adenauer, Schuman, De Gasperi, e poi Brandt, Schimdt. Ne citiamo solo alcuni per affermare che non avevano neppure delle competenze specifiche, ma avevano una visione della società possibile, presente e futura, che garantiva un assetto democratico nazionale e cercava una cooperazione internazionale per un assetto democratico più ampio. Erano dei politici per cui un teorico come Frederick S. Oliver avrebbe riscritto Elogio dell’uomo politico.
A questo mondo che aveva ampie visioni storiche e politiche si è sostituito una serie di competenti, soprattutto finanziari e parzialmente economici, che sembrano costituire delle oligarchie e che vengono percepite come ostili da gran parte dei cittadini di uno Stato nazionale o di una più ampia comunità da costruire come l’Unione Europea. La politica sembra non esistere più. E una società civile, senza una politica seria, non ha neppure la possibilità di un’architettura democratica.
Forse, ripensando solo alla storia di questi ultimi trent’anni, è inutile vedere chi guadagna qualche voto in più degli altri e costituire una “repubblica dei sondaggi” o un’Unione dei sondaggi, ma ritornare alla crescita di una classe dirigente che sappia interpretare la realtà e si guadagni con sincerità, anche quella spiacevole, la fiducia dei popoli. In altre parole una classe dirigente che faccia politica.
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