Una recente intervista al generale Marco Bertolini sul Sussidiario descrive bene lo stato attuale della guerra in Ucraina, portando a conclusioni alquanto diverse da quelle finora prospettate in Occidente. Putin sembra ancora bene in sella, ha un maggiore controllo sugli oligarchi e sull’apparato, è riuscito a compattare buona parte dei russi dietro il patriottismo della Grande Russia. Le sanzioni non hanno provocato la crisi che si aspettava l’Occidente, anzi. E Bertolini fa un parallelo con l’Italia all’epoca delle “inique sanzioni” contro il regime fascista e la conseguente crescita di un’economia autarchica. Sul piano internazionale sembra essere quasi completamente fallito il disegno di isolare Mosca, malgrado l’incriminazione di Putin come criminale di guerra.



La guerra sembra ormai giunta a un sostanziale stallo, anche per il sopraggiungere dell’inverno, e appare irrealizzabile la promessa di Zelensky di una vittoria ucraina. A meno di un intervento diretto della Nato, cioè l’inizio della tanto temuta terza guerra mondiale; un’ipotesi molto lontana visto l’atteggiamento tenuto finora da Washington. Il generale Bertolini suggerisce che “Zelensky stia ormai combattendo per la sua sopravvivenza, non più per quella dell’Ucraina”. Per di più cominciano a circolare scoop sull’esistenza di trattative. Nonostante il coraggio dimostrato dagli ucraini, è sensato chiedersi se sia ragionevole “bruciare, oltre a due generazioni di uomini, un’altra generazione di 17enni e le donne”. E continuare con la distruzione del proprio Paese.



Mosca, a sua volta, deve riconoscere il completo insuccesso del tentativo di regime changing a Kyiv, un tentativo azzardato e forse determinato da false informazioni su un possibile successo. A differenza degli insuccessi americani in questo campo, è però riuscito il successivo passo del nation building, ma in senso contrario a quello voluto da Putin: l’identità nazionale ucraina si è decisamente rafforzata, ponendo fine alla sua definizione come “Piccola Russia”.

Detto questo, Putin può comunque presentarsi come colui che ha riportato nell’alveo patrio la Crimea e il Donbass, abitati da maggioranze russe, anche se con disastrosi costi in vite umane di cui potrebbe essere chiamato a rispondere. Continuerà perciò a brandire il concetto della Russkiy Mir, traducibile come mondo o pace russi, una sorta di eccezionalismo russo da contrapporre all’eccezionalismo americano. Questo forse spiega il deciso antagonismo di Washington verso Mosca, malgrado il vero avversario dovrebbe essere Pechino, con il quale invece si discute. Uno scontro tra “eccezionalismi” estremamente pericoloso, come si sta già dimostrando in particolare per l’Europa, e che rischia di servire solo alla Cina.



L’auspicabile fine della guerra porterà probabilmente a una situazione non dissimile da quella che si sarebbe potuta ottenere con l’attuazione degli accordi di Minsk 2 del 2015, almeno per quanto riguarda il Donbass. Una guerra quindi inutile, che era possibile evitare, dalla quale l’Ucraina esce come un Paese da ricostruire e non solo materialmente. Rimane essenziale il coinvolgimento degli Stati Uniti e del resto dell’Europa, con sullo sfondo la possibile entrata dell’Ucraina nell’Unione Europea, soluzione tutt’altro che facile al di là degli slogan. Dato che la Nato ha come unico avversario esplicitamente dichiarato la Russia, l’adesione dell’Ucraina rimane un ostacolo ad ogni reale accordo di pace con Mosca. Tutti i confini europei della Russia sono ora con Stati membri della Nato, ad eccezione di Ucraina, Bielorussia e  Georgia, che è peraltro in lista d’attesa per Nato e Ue. La sicurezza dell’Ucraina dovrebbe essere perciò assicurata da un trattato con la Russia garantito da altri Stati, principalmente dagli Stati Uniti. Ammesso che questi ultimi lo vogliano.

I Paesi europei hanno avuto gravi danni economici da questa guerra, basti pensare alla crisi energetica causata dalla rottura con la Russia o al raffreddamento dei rapporti con la Cina, anch’essi non irrilevanti. Molto meno sensibili i riflessi negativi per gli Stati Uniti, che potrebbero essere considerati, insieme alla Cina, i più avvantaggiati dalla guerra. Un segnale della crescente sudditanza europea verso Washington viene da una recente proposta della Nato: la creazione di una “Schengen” militare, per evitare la troppa burocrazia che ostacola i movimenti di truppe in Europa, rendendo più difficile la difesa nel caso di un conflitto con la Russia. L’ipotesi di un attacco della Russia alla Nato mi suona piuttosto improbabile, dopo che la guerra in Ucraina ha evidenziato le difficoltà della macchina bellica russa. Per di più, truppe Nato sono già presenti in quasi tutti i Paesi europei, senz’altro in quelli confinanti con la Russia.

Colpisce il riferimento a Schengen, perché significherebbe l’eliminazione di ogni controllo dei Paesi europei sugli spostamenti di truppe straniere sul proprio territorio, sia pure appartenenti all’Alleanza. La Nato verrebbe così di fatto a sovrapporsi all’UE, divenendo una specie di “superstato”, a evidente conduzione americana. Forse è davvero giunto il momento di pensare seriamente a un esercito europeo, magari cominciando dalla “triarchia” Germania- Francia-Italia di cui ha parlato Carlo Pelanda su queste pagine.

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