“Nessuna brutalità umana riuscirà ad uccidere Dio e i suoi figli, e questa è la vera gioia della Pasqua”, afferma mons. Visvaldas Kulbokas, lituano, nunzio apostolico in Ucraina da giugno 2021. Un intero Paese, a cominciare da chi è prigioniero sul campo, in Russia, o ferito, e dalle loro famiglie, attraversa un lunghissimo Venerdì Santo, di cui ancora non si vede la fine.



Solo facendo nostra la sofferenza del sangue, quello vero, possiamo capire l’urgenza della pace, e domandarla. Papa Francesco ha implorato il negoziato, spiega Kulbokas al Sussidiario, ma ognuno deve fare la sua parte. A cominciare dalla comunità internazionale, citata dal Papa, che finora ha fatto finta di non esserci.



Mons. Kulbokas, è Pasqua, Cristo è risorto. Cosa dice questo evento, questo fatto reale, al popolo ucraino?

È molto probabile che alcune migliaia di ucraini, civili e militari, che sono prigionieri nelle terre russe, facciano persino fatica a rendersi conto che è Pasqua. So dai racconti di chi è ritornato in libertà dopo gli scambi di prigionieri che nei luoghi di detenzione la sofferenza non è intermittente, bensì continua. Quindi non si tratta di Pasqua, ma di un continuo Venerdì Santo.

Ha in mente volti, situazioni, storie particolari?

Sì. Ogni giorno, quando celebro la Santa Messa, la celebro anche a nome dei sacerdoti greco-cattolici, padre Ivan e padre Bohdan. Non si sa dove siano; nessuno riesce a visitarli; ho il dovere morale di pregare al posto loro. Proprio a loro, i prigionieri e i feriti di guerra, e chi ha perso i propri famigliari, la Pasqua significa Sole e Luce di Gesù Cristo, i quali vincono tutto. Nessuna brutalità umana riuscirà ad uccidere Dio e i suoi figli, e questa è la vera gioia della Pasqua.



Il Papa in marzo ha fatto dichiarazioni scomode. Mi riferisco alle parole rivolte all’Ucraina, “avere il coraggio di negoziare”. Lei, impegnato nella diplomazia, come le ha accolte?

Il Santo Padre, oltre ad essere pastore supremo della Chiesa cattolica, è probabilmente il leader mondiale che con più insistenza parla dell’Ucraina; in realtà, non solo parla, ma prega ed agisce. Sarebbe fuorviante quindi concentrarsi su una sola parola od una sola frase, staccandola da tutto il resto. Ma direi molto di più.

Prego.

La guerra della Russia contro l’Ucraina ha messo in così grande difficoltà tutta la comunità internazionale – e quindi non soltanto il popolo ucraino che ne paga le spese – che si ha l’impressione che nessuno – me compreso – sa cosa e come affrontare questa sfida. E qui ci vuole molto coraggio per non rassegnarsi! Questo è il primo elemento: coraggio e speranza, al di là delle logiche umane.

E poi?

Il negoziato. Per il Papa, in quanto Pastore, ogni iniziativa che affronta la guerra da un lato diverso da quello militare, potrebbe essere chiamato con questa parola, “negoziato”. Tutti avranno notato che in quell’intervista il Santo Padre si è riferito alla comunità internazionale; ebbene, il fatto che la guerra stia proseguendo significa, a mio avviso, che la comunità internazionale ancora non ha parlato, “negoziato” a sufficienza, anche al suo interno, su ciò che si può e si deve fare, tutti insieme, per fermare la guerra, e fermarla in modo giusto e duraturo.

Eppure, politici e militari parlano continuamente. Più i primi dei secondi.

I militari e i politici parlano degli aspetti che spettano loro, cioè degli aspetti militari, economici e politici, e il Santo Padre cerca di dare il proprio contributo, che non è solo spirituale, ma anche di invito a non disperarsi, a non pensare che solo ed esclusivamente con i mezzi militari si conquisterà la pace.

Il “coraggio di negoziare” non spetta solo a chi sta perdendo, ma anche a chi sta vincendo. Che cosa può favorire oggi questa iniziativa? O dobbiamo essere pessimisti?

Penso che tutti si ricordino bene come Abramo ha negoziato con Dio stesso, cercando di salvare alcune città dell’Antico Testamento dalla distruzione. Da credente, ho la certezza che fede e preghiera possano ispirare soluzioni prima insperate, sorprendenti. In questo senso il messaggio del Santo Padre è indirizzato prima di tutto ai fedeli di tutto il mondo: abbracciate la sofferenza del popolo ucraino come vostra, pregate intensamente e con coraggio. Anche la preghiera dei peccatori può fare molto.

Dunque la preghiera di tutti noi.

Una famosa cantante francese del secolo scorso, Edith Piaf, diceva di essere stata guarita dalla cecità quando un gruppo di prostitute ebbe pregato per lei a Lisieux; ebbene, quelle prostitute ci danno un esempio di fede coraggiosa che porta frutti materiali!

Su mandato del Papa, il card. Zuppi ha compiuto molti viaggi, da Washington a Kiev e a Mosca. Che cosa può dirci di questa lunga missione? Ha portato frutti, risultati? Quali?

Dire che la missione del card. Zuppi è solo agli inizi. È tutta concentrata sulle questioni umanitarie, in primis quella dei bambini da riportare a casa in Ucraina, e richiede un lavoro davvero paziente e tenace. Ogni bambino che sarà restituito alla propria famiglia oppure casa di accoglienza, diventerà un intercessore presso Dio anche per il cammino della pace.

L’attentato a Mosca, senza ora addentrarci nelle responsabilità, sembra aggravare l’ostilità tra Russia e Ucraina. Che cosa pensa di quanto accaduto?

Se qualcuno vorrà usare il vile attentato per intensificare la guerra, farà venire il sospetto che possa essere stato compartecipe dell’atto terroristico stesso. Perciò la logica umana mi sembra suggerire che sia saggio non cadere nel tranello delle cospirazioni, perché in quel modo si incoraggiano i provocatori e non i pacificatori.

Come commenta le scelte delle autorità europee di fronte alla guerra?

Non sono in grado di rispondere a questa domanda, anche perché non riesco ad avere il tempo per conoscere con precisione le posizioni delle autorità politiche di altri Paesi. Un giornalista ucraino mi ha chiesto recentemente se scendo in sotterraneo durante i bombardamenti.

E lei che cosa gli ha risposto?

Gli ho risposto che gli allarmi di attacco aereo sono così frequenti che non posso permettermi di osservarli tutti. A Kyiv abbiamo superato la cifra di mille allarmi di varia durata, a volte alcune decine di minuti, a volte mezza giornata, in questi due anni.

Si parlava dei leader europei.

In tempo di guerra le questioni da affrontare sono così tante, che manca tempo per molte cose.

Lei ha rivolto un appello a “guardare con i propri occhi al sangue che cola. È il segno che parla più degli altri”. Cosa può farci dismettere le “teorie” e aprire gli occhi?

La ringrazio della domanda. Ciò che volevo dire in quell’occasione, è che senza una sufficiente empatia verso i sofferenti si può cadere nel tranello di pensare che ci sono delle soluzioni relativamente semplici che hanno funzionato nel passato o in altre regioni. Quindi mi riferisco non soltanto all’empatia “generica” di compatire con chi sta soffrendo, ma anche all’empatia mentale, cioè lo sforzo di capire quali sono le difficoltà culturali, ideologiche, religiose di questa guerra, al fine di essere più precisi e più efficaci anche in occasione dei suggerimenti che vengono avanzati.

Ci può spiegare meglio?

Il sangue cola e causa sofferenze enormi nelle famiglie dei dispersi e dei prigionieri di guerra, tra cui medici e civili. Quando li incontro, mi chiedono: ma è vero che nessuno in questo mondo riesce a fare in modo che le Convenzioni di Ginevra, e in pratica gran parte della legge umanitaria internazionale sia osservata? Ascoltando queste testimonianze, guardando questi occhi della sofferenza, mi rendo conto che non ho risposte facili, anzi non ho risposte. E perciò parlo della necessità che l’umanità in quanto tale sia unita nella ricerca delle soluzioni, cioè attiva in questo, senza lasciare il compito di risolvere il tutto a uno o due Paesi, ed a un numero limitato di persone. Abbiamo bisogno dell’aiuto di molte teste e di molte mani.

(Federico Ferraù)

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