Unire in Europa, dividere in Italia. Si potrebbe semplificare così l’osservazione dei fenomeni e delle discussioni sovrastanti che si manifestano in questi tempi, in questi giorni, con più evidenza che in passato. Da una parte due ex Premier come Mario Draghi ed Enrico Letta, incaricati di offrire gli spunti per una nuova governance comunitaria, concordano nel chiedere l’accelerazione dei processi d’integrazione. Dall’altra, in casa nostra, si cerca di portare a termine la riforma che dovrebbe dare più potere alle piccole regioni (non tutte, molte sì) che riempiono il nostro spazio nazionale.



Nel primo caso appare abbastanza evidente che la spinta al cambiamento provenga dalla preoccupazione di restare schiacciati dal protagonismo dei grandi attori della scena mondiale come Stati Uniti e Cina (e presto l’India) animati sempre più da uno spirito pragmatico rivolto a rispondere al seguente quesito: qual è il nostro interesse? Comportandosi di conseguenza, compiono scelte che vanno a vantaggio dei propri cittadini e delle proprie imprese abbandonando alle ortiche i propositi di solidarietà internazionale. Le regole funzionano e vanno rispettate quando c’è convenienza. Altrimenti si aggirano.



Nel secondo caso si cerca di portare a termine quel regionalismo spinto, consentito dalla Costituzione, che tanto piace al Nord e tanto poco al Sud. La secessione dei ricchi è stata chiamata questa tendenza che dovrebbe portare le amministrazioni che ne fanno richiesta ad avere la potestà su un numero molto alto di competenze con il risultato di far crescere in modo esponenziale le differenze tra un territorio e l’altro. Si prevedono certamente meccanismi che dovrebbero garantire un minimo di omogeneità, i famosi Livelli essenziali delle prestazioni, ma in un quadro così poco rassicurante che in pochi ci credono.



Dunque, ragioni di competitività in un mondo diversamente globalizzato suggeriscono di modificare la governance dell’Unione in direzione di una più accentuata coesione – difesa comune, unico mercato dei capitali, stesse politiche fiscali – per meglio difenderci dai colossi che ci sfidano soprattutto sul piano economico. Ragioni di natura politica premono invece nel Paese per dare soddisfazione a chi ritiene che facendo da soli, senza l’ingombro del Governo centrale e il peso del Mezzogiorno, si possano meglio soddisfare le pretese dei cittadini ed elettori di recuperare la ricchezza perduta.

Una nuova Europa è certamente auspicabile che nasca dall’esperienza di questa che abbiamo conservandone i pregi e correggendone i difetti che cominciano a essere troppi. Le cornici istituzionali non servono a contenere nature morte, ma a dare forma e carattere agli interessi (legittimi) di chi se ne serve. Ben venga, allora, una più forte e decisa costruzione dell’impianto continentale che recuperi i valori che ispirarono i padri fondatori: più benessere per tutte le popolazioni in un contesto di pace e sicurezza che oggi – con le guerre alle porte – assume un significato più profondo e più largo.

Anche una nuova Italia è giusto e utile che si formi per uscire dalle secche burocratiche e comportamentali che funzionano ancora da lacci e lacciuoli per chi abbia voglia – grandi e piccoli imprenditori – di affrontare la concorrenza a parità di condizioni. È allora cruciale, fondamentale, essenziale non sbagliare l’assetto istituzionale. E forse andrebbe guardata con maggiore attenzione la proposta riformulata di recente in un volume dall’ex Presidente della Regione Campania Stefano Caldoro di una diversa aggregazione del territorio in macroregioni più capaci di rispondere alle sfide.

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