L’applauso, al termine di Mon Vieux, nella seconda parte del concerto, è uno di quelli che sembrano non finire mai, giusto tributo ad una delle canzoni più belle di tutta la sua carriera. E Daniel Guichard, sorridente, se lo prende tutto, la mano sul cuore, ringraziando con un semplice, ma dolcemente intenso, “merci beaucoup”. Uno dei suoi cavalli di battaglia, ma anche, come ebbe a dire, una “canzone che parla a tutte le persone che amano il proprio padre”. E come si fa a non amare un padre, specie se, come il protagonista della canzone e Guichard stesso, lo si è perduto all’età di quindici anni? E se, sempre quel papà della canzone, ogni giorno al lavoro dentro un soprabito sdrucito, assomiglia così tanto al tuo, che per mantenere la famiglia scarica casse di formaggi e legumi al quartiere des Halles di Parigi? Dentro la struggente melodia del brano, trovano spazio, allora, ricordi e malinconia, rimorsi, ma, soprattutto, amore per chi non c’è più, ma ha costruito le fondamenta della tua esistenza: “mais quand on a juste quinze ans, on n’a pas le coeur assez grand / quando si hanno quindici anni, non si ha il cuore abbastanza grande / pour y loger toutes ces chose-là, tu vois / per trattenere tutte quelle cose, si sa”. “Ed ora che lui è lontano da qui” – recitano gli ultimi versi – maintenant qu’il est loin d’ici / pensando a tutto questo, mi dico / en pensant à tout ca, j’me dis / che desidererei tanto che lui fosse accanto a me / j’amairais bien qu’il soit près de moi / papa”.
Il concerto di Daniel Guichard del 25 gennaio, a Le Cannet, agglomerato di case – quelle del centro storico anche in stile Belle Epoque – sulle colline poco sopra Cannes, è stato una splendida carrellata di tutti i suoi più grandi successi. Una storia lunga, la sua, che inizia alla fine degli anni sessanta, quando la sera, dopo il lavoro da impiegato presso la casa discografica Barclay, si esibisce a Parigi, nei cabaret di Montmartre e del quartiere latino. Il suo primo grande successo, La Tendresse, è quello che lo porta, nel 1972, sulle prestigiose assi del palcoscenico de L’Olympia. Poi la sua carriera diviene un crescendo di popolarità e successo, passando anche per l’avventura della gestione di un’etichetta discografica (nella quale dare spazio persino a un gruppo punk, La Souris Déglinguée) e di una radio pirata, dedicata interamente alla canzone francese.
La Tendresse, canzone che racconta di come si possa conservare un’affezione – una tenerezza, appunto – anche quando l’amore finisce, è un altro di quei brani che genera durante la serata un applauso intenso e prolungato. Alla fine del concerto si conteranno ben venticinque canzoni, per questa tappa del suo tour “Jusque-là ca va” che, dal 2018, lo sta portando dappertutto in Francia. Un titolo che dice che per l’ultrasettantenne Guichard il tempo sta passando, sebbene, lo scopriremo questa sera, sia in splendida forma e con una voce ancora melodica e potente, così che Daniel, anche all’inizio di questo 2020, si conferma come uno dei franchi tiratori della canzone francese, chansonnier degno di stare al fianco di calibri come Charles Aznavour, Jacques Brel, Charles Trenet ed Edith Piaf.
L’inizio del concerto è intenso: Daniel entra in scena sulle note de L’Indien, canzone ritmata e vivace, che guarda ai mali del mondo con realismo, ma anche speranza (“Faut pas désespérer, mais faut pas trop rever / Non bisogna disperare, né sperare troppo / on peut toujours changer, le monde et ses idées / è sempre possibile cambiare, il mondo e le sue idee”). Poi si getta nelle dolci melodie di “Je Viens Pas Te Parler d’Amour” e “Chanson pour Anna”, quest’ultima, splendida, dedicata ad Anna Frank. “L’Enfer” infiamma nuovamente palcoscenico e spettatori, con il chitarrista del gruppo che si concede qualche assolo di stampo rock. La già citata La Tendresse, uno dei vertici della serata, precede un’altra bella canzone, Reste, tratta dall’ultimo album, Notre Histoire, del 2012. Prima di cantarla, l’artista si confida col suo pubblico. Le canzoni – dice – veicolano messaggi, ma in fondo servono soltanto ad iniziare bene la giornata o ad annegare i momenti di tristezza. Sarà, ma a me pare che dentro le sue ci sia molto di più, invece. Ed a giudicare dalla risposta del pubblico, sembro non essere il solo a vederci dentro emozioni che raccontano tutta la nostra vita. E che dicono che quando la musica è davvero popolare travalica i confini nazionali e diventa capace di raccontare ciò che è scritto dentro ogni cuore. In fondo, come ha dichiarato lo stesso Guichard in un’intervista di qualche tempo fa, “la fortuna d’ essere un cantante popolare è quella di appartenere, con il tuo pubblico, alla stessa famiglia”.
Anche Reste parla proprio di questo, di qualcuno che non si vuole lasciar andare via – “Emmène moi, avec toi, là où tu t’en vas / Portami con te, là dove te ne vai / Si tu veux, si tu peux, prends moi dans tes yeux / Se vuoi, se puoi, prendimi nei tuoi occhi” – ma anche del desiderio di tenere serrate a sé le esperienze di bellezza che facciamo nella nostra vita. “A Coup de poings”, canzone sulla fierezza del vivere, è ancora tratta dall’ultimo disco, poi arrivano “J’aimerais”, altra dolcissima melodia d’amore e “L’Accordéoniste”, canzone di Edith Piaf, tributo di Guichard ad uno dei giganti della chanson francaise, dove la fisarmonica di Caroline, diciotto anni, la più giovane della band, ci introduce, come d’incanto, in un bistrot parisien. “Les Enfants Perdus” e “Mon Enfance” precedono “Je N’ Fais Rien”, in occasione della quale Guichard imbraccia la chitarra acustica per il brano che conclude la prima parte del concerto e che si rivelerà il più scanzonato, sia per il testo che per la stessa presentazione del cantante, che confida che bisognava percorrere una lunga carriera come la sua per arrivare a sentirsi liberi di cantare così: “Quand je vais quelque part / Quando vado in giro – recita l’ultimo verso – je n’ai jamais à m’inquiéter / non mi devo mai preoccupare / y’a mon impressario qui a tout arrangé / c’è il mio impresario che ha sistemato tutto / t’as pas grand chose à faire dit-il , tu n’a plus qu’à chanter / non devi far granché, solamente cantare / uniquemente lorsque l’argent est encaissé / tanto il denaro l’abbiamo già incassato”.
La seconda parte del concerto inizia energicamente come la prima. Le Gitan, storia di un pugile, è un’altra delle sue canzoni più famose e sembra uscita da quelle atmosfere latine che ancora oggi abitano la Camargue, piccolo territorio a sud della Francia, e paradiso, appunto, dei gitani, non lontano dall’Hérault, regione dove da diversi anni Guichard si è trasferito. Ed è l’occasione per Daniel di salutare anche un amico pugile francese, seduto in seconda fila. “Je L’aime”, “Si j’avais su…”, “Donnez moi” ci riportano sulle note della classica canzone melodica, poi Guichard ci regala una splendida versione di Amsterdam, canzone di Jacques Brel, incisa in passato anche da David Bowie, dove in un crescendo di note e di potenza della voce, ci ritroviamo immersi nella cruda poesia della vita dei marinai, che scorre senza tempo lungo le rive del porto della città. Da qui in poi, il concerto si snoda lungo un’intensità sempre più forte. “Je t’aime tu vois”, dolcissima, ha il ritornello che viene cantato anche dal pubblico, “Mon Vieux” commuove gli animi, “Faut pas pleurer comme ca” mantiene alta la tensione emotiva. “Ce n’est pas à Dieu que j’en veux” è una canzone potente, che Guichard canta sempre, nei suoi concerti, da diversi anni. Quella che, a prima vista, sembra una canzone contro la religione, appare forse più l’espressione di un cuore alla ricerca della verità: “ce n’est pas à Dieu que j’en veux / non ce l’ho con Dio – canta Daniel – mais à ceux qui m’en ont parlé / ma a coloro che me ne hanno parlato” e quando aggiunge “je l’ai cherché dans leurs yeux / l’ho cercato nei loro occhi / mais je ne l’ai pas trouvé / ma non l’ho trovato”, non c’è rabbia nel suo sguardo, mentre guarda il pubblico allargando semplicemente le braccia.
“C’est pas facile d’aimer” e “Elle avait plein d’amis” precedono “La Nuit”, canzone dei primi anni settanta durante la quale Guichard imbraccia ancora la chitarra acustica mentre il ritmo sale su accelerazioni rock ed il testo parla di notti popolate da principi e fantasmi, apostoli, poeti e bohémiens, notti che non hanno fine, quando si attende il giorno che verrà. E’ l’ultima canzone, prima dell’unico bis finale e Daniel scherza col suo pubblico, vedendo quanto sia salita l’eccitazione: “siete troppo agitati – dice – come fate ad andare a dormire, adesso? Ci vuole una canzone calma, che faccia riposare gli animi!”. “La vie qui passe” è la canzone del congedo da quella che si è rivelata una splendida serata. La vita che passa ci spiazza – canta Guichard – aumentano i problemi, diminuiscono i sogni innocenti e le certezze, aumenta la nostalgia; eppure è una canzone dolce, sulle cui note non è difficile andare via, perché questa nostra storia – come recitano i versi di Notre Histoire, una canzone che questa sera non abbiamo ascoltato – è il nostro cammino di libertà, e noi lo percorriamo con un cuore sempre “imbrattato di speranza”.
Il giorno dopo, a Cannes, c’è il sole. Due mesi fa eravamo qui, durante un’inondazione che aveva distrutto buona parte del litorale della Costa Azzurra e della Liguria ed il concerto era stato rimandato. E’ la terza volta che rincorro la possibilità di vedere dal vivo uno dei più grandi cantanti francesi di tutti i tempi – la prima volta, nel 2015 era stata la furia omicida dei terroristi, entrati nella redazione della rivista Charlie Hebdo a fermare il mio viaggio – e finalmente ci sono riuscito. E’ domenica e le campane di Notre Dame d’Espérance, la cattedrale posta in cima alla rocca della città vecchia, suonano a festa dopo la messa. Poco prima le note dell’organo avevano appena accompagnato un bellissimo canto: “La tendresse fleurira sur nos frontières, l’éspérance habite la terre / la terre où germera le salut de Dieu / Notre Dieu se donne a son peuple”. Eccola, ancora una volta, la tendresse. La tenerezza che dona speranza alla vita dell’uomo. Fuori dalla chiesa guardo i tetti delle case, lo sguardo si spinge fino al mare. L’alluvione è passato e il sole scalda la mente e il cuore. L’azzurro del cielo ha raggiunto ancora una volta la terra.