Paura e voglia di libertà assoluta. Un quadro dato dai nuovi allarmi di contagio dovuti alla variante Delta e allo stesso tempo il rifiuto di ogni disposizione “autoritaria” da parte del governo, ad esempio il green pass. La situazione vede una società divisa come non mai, ma anche una società che si porterà dietro a lungo un’esperienza mai vissuta a livello globale come questa, che si può paragonare solo a chi si è trovato in zone di guerra.
Senza dimenticare il disastro economico provocato dal Covid: secondo i dati dell’Istat relativi al 2020, le persone in stato di povertà assoluta sono aumentate nel 2020 di un milione rispetto all’anno precedente, per un totale di 5,7 milioni. Ne usciremo e come ne usciremo? Secondo il professor Fulvio Tagliagambe, psicoanalista e membro dell’International Psychoanalytical Association (Ipa), “viviamo in un quadro per nulla semplice, con oscillazioni che vanno dalla paura al desiderio di libertà assoluta. I giovani in particolare sono stati particolarmente segnati, ma grazie alla forza e alla vitalità della loro età non porteranno traumi particolari, certamente rispetto alle generazioni precedenti avranno una maggior consapevolezza della malattia e della morte, il che non è affatto un male, anzi”.
I media stanno di nuovo suonando l’allarme contagi e si riparla di zone gialle. Negli italiani prevale la paura o la voglia di libertà?
Non è un quadro semplice, tenendo conto che le oscillazioni di gruppo sono poi enfatizzate rispetto a quelle personali. Si può gioire tutti insieme quanto ci si può allarmare tutti insieme per un pericolo. È necessaria una gestione del grande gruppo sociale attraverso una comunicazione che possa permettere di centrare di più le aree intermedie rispetto a questo pendolo.
Nell’ultimo periodo ogni possibile iniziativa del governo, ad esempio il green pass, viene presa come un oltraggio alla libertà individuale. Che ne pensa di queste reazioni?
È un atteggiamento fuorviante perché la libertà personale è un valore che va perseguito, ma non siamo totalmente liberi perché in questo momento siamo dipendenti da una situazione sanitaria che ci mette in pericolo. Certamente la libertà è un presupposto fondamentale della nostra cultura e della nostra democrazia, ma va applicato tenendo conto che in questo momento c’è un’emergenza sanitaria.
Questa desiderio amplificato della difesa della libertà individuale, rispetto ad anni passati, sembra essere aumentato nelle persone, anche da prima della pandemia e coinvolge un po’ tutti gli aspetti della vita. È così?
Sono assolutamente d’accordo. Veniamo da anni in cui si è perseguito il valore perverso della competizione, rispetto a un valore di condivisione e di riconoscimento della qualità delle relazioni. Questo ha portato a una forma di individualismo che ha creato una serie di fenomeni patologici sul piano delle richieste che arrivano negli studi dei terapeuti come problemi di attacchi di panico, depressioni, difficoltà relazionali in qualche modo collegati a una corsa al dover-essere secondo certi parametri di successo a scapito delle qualità di una dimensione relazionale di appartenenza condivisa.
I giovani sono stati particolarmente colpiti dal punto di vista psicologico durante la pandemia, con l’isolamento a casa, la didattica a distanza. Pensa che si porteranno dietro delle ripercussioni psicologiche?
Credo che sicuramente sia una generazione che è stata segnata perché è un fenomeno che ha riguardato tutti e non può essere ininfluente. Che lasci delle tare è un discorso a livello individuale. Situazioni di fragilità possono in qualche modo essere condizionate da quello che è successo, ma credo che i giovani possiedano una vitalità e una forza che permette loro di andare oltre. È stata un’esperienza che ha toccato una fase della vita in cui ci si sente onnipotenti, non si pensa alla malattia e alla morte. Questa generazione ci penserà un po’ di più, ma non è detto che sia un male.
Come professionista del settore ha osservato un aumento di casi di depressione, ansia o panico?
Direi proprio di sì. Ci sono delle situazioni in cui gli effetti della pandemia entrano nella psiche attraverso i sogni e l’immaginario che è stato pervaso dalla pandemia stessa. Si avverte soprattutto in chi ha vissuto in maniera diretta la questione, come il personale sanitario. Ho lavorato presso gli ospedali di Bergamo e Brescia per accogliere la loro condizione e c’erano casi di sogni terrificanti di soffocamento.
C’è anche l’aspetto economico: lascerà un segno? La pandemia ha portato a un aumento di un milione di casi di povertà assoluta solo nel 2020.
Forti conseguenze per chi si trova in condizioni di gravi difficoltà economiche a livello del singolo ci sono sicuramente e ci saranno. Questa aspetto è molto problematico e non può che creare condizioni di tensione di ansia e di stress. A livello collettivo mi auguro che si sviluppi di più una solidarietà e una modalità di rivedere certi parametri, a partire dalla salute. Va ripensata anche una ridistribuzione di quelle che sono le fasce più deboli, ma mi sembra ci sia un’attenzione maggiore in questo momento.
Il dominio mediatico dei virologi ha cambiato il nostro modo di vedere le cose? C’è chi ha lamentato l’assenza nel Comitato tecnico-scientifico degli psicologi.
Relativamente. In una fase di emergenza è chiaro che i virologi hanno avuto più modo di essere centrali rispetto alle risposte da dare. Questo non significa che gli psicologi non siano stati coinvolti. Sono stati innumerevoli gli interventi anche gratuiti che sono stati offerti – il mio è tra questi –, e utilizzati anche dai parenti delle persone ricoverate. Quindi penso che all’inizio ci sia stata una centralità dei virologi poi è nato un movimento che ha visto la partecipazione un po’ di tutti.
(Paolo Vites)
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