In molti non ci hanno fatto caso, ma dopo il lockdown c’è un buon numero di persone che è rimasta a casa, come se la fase di emergenza della pandemia non fosse mai terminata. Semplicemente, hanno paura di tornare alla vita normale: si sono trovati in una situazione così confortevole, come spiega in questa intervista il professor Alessandro Meluzzi, laureato in in Medicina e Chirurgia presso l’Università Statale di Torino e poi specializzatosi in Psichiatria, che adesso vorrebbero prolungarla: “Stare rinchiusi dentro casa, in isolamento, in una condizione innaturale per un periodo così lungo ha indebolito, dal punto di vista psicologico, molte persone. Questa tendenza a non uscire non sempre è legata al timore del contagio, ma è legata alla difficoltà di tornare a vivere”. Tecnicamente, dal punto di vista della psicologia, si chiama sindrome della capanna, “un bozzolo dove mi sento protetto e al sicuro”. Personalità che mancano di una capacità di giudizio e di criterio propri e per questo possono anche diventare potenzialmente pericolose, come la storia ci ha già mostrato.



In molte delle persone che hanno vissuto questi due mesi di isolamento si sta sviluppando il fenomeno cosiddetto della sindrome della capanna, cioè il rifiuto di uscire, di tornare alla vita normale. Che cosa significa?

Nel nostro animo abbiamo due tendenze che si contrappongono. Ci sono le fobie claustrofobiche e quelle agorafobiche. Ci sono cioè persone che hanno paura di essere chiuse in spazi limitati e altre che hanno il terrore degli spazi aperti.



Cosa è successo durante il lockdown?

Questa lunga cattività ha aumentato le patologie di chi è terrorizzato degli spazi aperti nelle loro varie complicazioni: ad esempio, chi ha paura delle relazioni sociali, chi ha paura dell’ambiente, del mondo, chi ha le fobie sociali, tutta gente che ha la necessità di stare in uno spazio sicuro e avvolgente. Qualcosa che ricorda la sindrome di Stoccolma, dove il prigioniero si affeziona a chi lo tiene in cattività. Per tutta la durata del lockdown si sono ritrovati in una situazione, diciamo così, di comfort.

E adesso invece?

Adesso che questa situazione è finita, preferirebbero chiudersi in questo bozzolo, sperando possa durare per sempre. Fortunatamente il mondo non è così e adesso sono in difficoltà.



A che status sociale appartengono queste persone?

Di solito sono persone molto conformiste, prone ai miti del mainstream, che prendono le notizie dal Tg1 o da Canale 5, reti televisive che tendono a una informazione gruppale, cioè che preferisce il gregge, e se vedono qualcuno che si allontana dai comportamenti del gregge, ad esempio una persona senza mascherina, urlano come facevano i kapò nei campi di concentramento. Hanno una visione molto normativa, tendenzialmente conformista e irrispettosa delle libertà altrui. Tendono a essere ipocondriaci nei confronti della salute, hanno un io paranoico e depressivo nel tono dell’umore e sono anche persone molto ansiose. E possono anche diventare molto pericolose.

In che senso?

Lo abbiamo visto nel caso di tanti assassini, di tanti kamikaze, di personaggi come il norvegese Anders Breivik. Per attaccarsi a qualcosa, diventano fanatici dei regimi totalitari di ogni epoca.

Può influire su questo stato la confusione che viviamo a livello di ordinanze, di cambiamenti continui, di indicazioni una diversa dall’altra? Può la situazione attuale generare confusione psichica?

Quello che dice è senz’altro vergognoso, ogni giorno ci dicono cose diverse. Però, mentre le persone libere e ragionevoli leggono la realtà con la loro testa, queste persone, avendo una autonomia personale critica e di giudizio molto limitate, sono disperate. Non sanno a cosa conformarsi ed entrano in crisi.

Sono soprattutto giovani, che fanno da contraltare ai coetanei “della movida”?

No, si spalmano in età diverse, dagli anziani ai giovani.

Il trascorrere del tempo li aiuterà a riprendere contatto con la società?

Mi auguro che non vivremo sempre in una epidemia, anche se a qualcuno potrebbe piacere prolungare questo stato, perché vorrebbe governare a lungo. E non c’è niente di meglio che governare un branco di pecore.

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