Uscito nelle sale cinematografiche il 29 settembre scorso, Dante di Pupi Avati sembrava destinato a un pubblico ristretto e, invece, sta realizzando un buon numero di spettatori, a testimonianza dell’interesse crescente per l’opera dantesca, ben al di là dei numerosi eventi che hanno segnato le celebrazioni dei 700 anni dalla scomparsa dell’Alighieri.



Il film ha almeno due fonti letterarie ben evidenti: il Trattatello in laude di Dante di Giovanni Boccaccio e il romanzo dello stesso Avati, L’alta fantasia. Il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante (Solferino 2021), da cui trae la sua trama essenziale.

L’azione si apre a Firenze, molti anni dopo la morte di Dante esule a Ravenna, dove troviamo un Giovanni Boccaccio, ormai anziano e malato, che viene incaricato dai Capitani di Or San Michele di portare dieci fiorini d’oro, a titolo di risarcimento simbolico per i mali inflitti al padre, a suor Beatrice, la figlia di Dante, monaca a Ravenna.



Lungo il suo viaggio Boccaccio incontra alcuni personaggi legati alla vita di Dante, che ci viene così presentata in una serie di flashback, in forma di quadretti biografici: un Dante bambino presso il letto di morte della madre, la figura del padre, l’incontro con Beatrice e il “saluto”, l’amicizia con Guido Cavalcanti, la morte di lei e la devastazione interiore che ne seguì, il sofferto matrimonio di Dante con Gemma Donati, la partecipazione alla battaglia di Campaldino, la vita politica e l’elezione a priore, il viaggio a Roma, Bonifacio VIII, l’esilio, il dramma della famiglia, la morte a Ravenna. Lo spettatore è chiamato a seguire questo percorso insieme con Boccaccio, commuovendosi con lui e con lui rivivendo i momenti salienti della vita del Sommo Poeta.



Sono di grande aiuto le splendide immagini dell’Italia medievale che Pupi Avati sa regalarci: in effetti, uno degli aspetti di questo film che più colpisce è proprio l’estrema cura nella fotografia, per cui paesaggi, luoghi e personaggi sembrano essere ripresi da affreschi, miniature e bassorilievi trecenteschi.

Un bravissimo Sergio Castellitto interpreta magnificamente e con straordinario realismo l’ormai anziano Giovanni Boccaccio, accompagnato da un cast di attori chiamati a recitare parti molto complesse. Valga qui, per tutti, Beatrice, interpretata da Carlotta Gamba, in un ruolo etereo e, per questo, ancor più arduo. E davvero, proprio per la sua carica simbolica, la drammatizzazione, anche parziale, della Vita Nuova resta pressoché impossibile; ma, va detto, il regista non rinuncia a riprenderne, apertamente, la conclusione più importante: il proposito finale, da parte di Dante, di “dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna”, cosa che, poi, secondo molta critica, trova la sua attuazione proprio nella Commedia.

Alla fine, Boccaccio giunge a Ravenna, dove rivede la donna che era stata la sua amante e la figlia Violante, che non lo chiama mai “padre”, come pure egli tanto desidera.

È un romanzo nel romanzo, quello in cui l’autore del Decameron vede frantumarsi tutta la leggerezza di vita in cui credeva di aver potuto riporre la sua gioia. Non sfugga – e non sta a noi decidere se si tratta di una concessione del regista allo spirito del Medioevo – che una breve scena del film ci presenta, a questo punto, un Boccaccio penitente, che chiede perdono dei suoi peccati in confessione, quasi a preparare l’incontro con suor Beatrice, cosa che – e questo è chiarissimo – non rappresenta solo l’adempimento di un compito assegnatogli dalla città di Firenze, ma l’esito di un viaggio interiore alle origini della poesia. D’altra parte, secondo Charles Singleton, la stessa Divina Commedia è un “viaggio a Beatrice”.

La figlia di Dante, inizialmente, non acconsente a incontrarlo, per il male che i fiorentini hanno fatto a suo padre e alla sua famiglia. Poi, però, nella scena di notturno che chiude il film, abbiamo il dialogo tra i due, liberatorio per entrambi. Suor Beatrice riconosce che lui, Giovanni Boccaccio, ha sempre difeso suo padre, ha trascritto la Commedia ed è mosso da intenzioni sincere. Boccaccio, a sua volta, confessa che Dante per lui è come un padre nella poesia; lo fa commuovendosi profondamente. In fondo, che la poesia nasca dalla commozione, prima ancora che concetto aristotelico (e quindi dantesco), è verità dell’esperienza umana.

Certo, i filologi non saranno contenti di alcuni passaggi di questo film, e non lo saranno sempre nemmeno gli storici, benché il regista sia stato attentissimo a ricostruire scene (per esempio, quelle dei due matrimoni, di Beatrice e di Gemma Donati), e particolari (per esempio, i piatti serviti a tavola) in maniera il più possibile accurata. Così, se è vero che la Commedia è durissima su papa Giovanni XXII, come del resto con tutti i papi del tempo, è un falso storico quello che a questo papa avignonese attribuisce – come in una delle ultime scene del film – la pubblicazione delle Tasse della cancelleria apostolica e della sacra penitenzieria, con cui, a pagamento, venivano perdonati peccati come lo stupro, l’adulterio e l’infanticidio. Prendiamola come una delle inevitabili concessioni commerciali (oltre a quel pizzico di ardimento sessuale che non può mai mancare nelle nostre sale cinematografiche), dato che il testo delle Tasse risale, quasi certamente, all’epoca del pontificato di Leone X e fu costruito in contesto propagandistico protestante.

Durante il suo viaggio verso Ravenna, Boccaccio si ferma a Vallombrosa e qui l’abate gli mostra una copia della Commedia, acquistata a caro prezzo da un copista bolognese, mettendo in evidenza i versi antipapali del Poeta e il turbamento che ne nasce in lui. Ma “ha cercato Dio, Dio!”, gli replica l’autore del Decameron, e specifica: “Dio!”, “l’Amore che move il sole e l’altre stelle!”.

In questa sottolineatura della ricerca, di una ricerca che non va a vuoto, sta uno dei meriti di questo film, che va visto come un invito alla lettura e all’incontro con Dante, dove le stelle c’entrano, eccome, con tutto e con tutti. Perché come racconta di suo padre Antonia di Dante Alighieri, in religione suor Beatrice, nel chiostro del monastero di Ravenna, lui sapeva il nome delle stelle, di tutte le stelle…

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