“Poi lei aprì un libro di poesie
E me lo diede
Scritto da un poeta italiano
Del XIII secolo
E ognuna di quelle parole suonava vera
E brillava come carbone ardente
Versato fuori da ogni pagina
Come se fosse stato scritto nella mia anima da me a te
Aggrovigliato nella tristezza”
Verso celebre, questo, di una delle più belle e note canzoni di Bob Dylan, Tangled up in blue, che ha fatto discutere molto noi italiani, sempre sotto shock quando un autore estero cita qualcuno di noi. Chi è il poeta del XIII secolo? La risposta più comune è sempre stata Dante Alighieri, di cui si ricordano i 700 anni dalla morte, ma nato nel 1265, che avrebbe composto la Divina Commedia proprio a cavallo tra XIII e XIV secolo. Non è detto però che Dylan si riferisse proprio a quell’opera del “Sommo poeta”, potrebbe essersi trattato anche de La vita nova, opera in cui narra poeticamente del suo amore ideale per Beatrice, dal primo incontro fino alla morte. Bob Dylan, durante i circa dieci anni di matrimonio con la moglie Sara, la idealizzò come musa ispiratrice e salvifica tanto quanto aveva fatto Dante con Beatrice.
La canzone in questione narra invece di una relazione tumultuosa di una coppia, dal matrimonio alla separazione e poi alla riconciliazione. E’ certo che Dylan è stato spesso paragonato a Dante per l’importanza poetica dei due artisti (non dimentichiamo che Dylan ha vinto il premio Nobel per la letteratura). Altri hanno invece pensato si riferisse a Petrarca.
Per il professore di Harvard Matthew Collins, “È perfettamente possibile che il “poeta italiano del XIII secolo” sia Dante. Possiamo essere abbastanza sicuri che questo poeta nato nel tredicesimo secolo abbia avuto un ruolo, direttamente – e forse anche di più per diffusione – nel plasmare il lavoro lirico di Bob Dylan, che ha incorporato molte voci diverse di molte epoche diverse, mentre colmava un divario tra il passato e il presente, come se il passato “fosse scritto nella mia anima, da me a te”. Dato che Dylan è ora ufficialmente accreditato (grazie al Nobel) di sviluppi innovativi all’interno della tradizione del grande libro di canzoni americano (per quanto non sia necessaria quella dichiarazione ufficiale per coloro che se ne rendevano conto molto prima di tali riconoscimenti), si può anche fare un cenno alla sempre presente e continua influenza di Dante. Influenza letteraria per aver giocato un ruolo nel processo creativo di Dylan che coinvolge l’assorbimento e la ri-presentazione di ogni sorta di fonti letterarie, molte profondamente radicate all’interno di tradizioni culturali che portano direttamente al cuore dell’opera di questo particolare poeta italiano, scritta nel XIII e XIV secolo. Le sue parole potrebbero anche essere state proprio quelle che “brillavano come carboni ardenti”, all’interno dei testi di Dylan”.
C’è però un altro autore di canzoni, certamente meno famoso di Dylan, il nostro Antonello Venditti, che nella sua bellissima Compagno di scuola cita Dante due volte. Lo fa per sottolineare quell’insegnamento fatto di teoria, parole imparate a memoria, nozionismo esacerbato che portò alla rivolta del 68. Quel modo di insegnare privo di ogni spunto coinvolgente, che potesse appassionare i giovani, che a molti di noi, soprattutto quelli cresciuti negli anni 70, ci fecero odiare grandi opere come i Promessi sposi e appunto la Divina commedia. Compagno di scuola descrive perfettamente quell’atmosfera pre 68, “e la Divina Commedia, sempre più commedia… al punto che ancora oggi io non so se Dante era un uomo libero, un fallito o un servo di partito” canta Venditti.
Più affascinante è però quando il cantautore romano tocca due dei protagonisti dell’inferno dantesco, Paolo e Francesca (“Ma Paolo e Francesca Quelli io me li ricordo bene Perché, ditemi Chi non si è mai innamorato Di quella del primo banco La più carina, la più cretina Cretino tu Che rideva sempre, proprio quando il tuo amore Aveva le stesse parole, gli stessi respiri del libro Che leggevi di nascosto sotto il banco”). Paolo e Francesca sono senza ombra di dubbio i personaggi più toccanti dell’intero inferno (Canto V, v. 137), tanto che lo stesso Dante scoppia a piangere e sviene quando li sente raccontare i motivi della loro condanna. Personaggi realmente esistiti, Paolo Malatesta detto il Bello, per l’avvenenza fisica, appartenente alla potente famiglia che avrebbe dominato Rimini, era sposato, così come sposata era Francesca da Polenta, addirittura con il fratello di Paolo per via di un matrimonio per procura a soli 15 anni. Lei infatti era già innamorata di Paolo. Il marito di lei, fratello di Paolo, li ucciderà quando li troverà insieme a letto. I due si trovano nel girone dei lussuriosi, nella schiera dei morti per amore. Vagano uno a fianco dell’altra, spostati dal vento senza potersi fermare, finché Dante, notatili, li implora di fermarsi: “Oh persona gentile e buona che visiti nell’oscuro inferno le anime di noi che tingemmo la terra di rosso sangue, se Dio fosse nostro amico, noi lo pregheremmo raccomandandoti a lui, perché hai avuto pietà di noi peccatori perversi”.
Dante ascolta la loro storia, quella di un amore purissimo nato per sfuggire alle imposizioni del potere che li aveva invece voluti sposi contro la loro libera scelta. Una scelta di libertà, la loro, un tentativo di sfuggire alla realtà opprimente, la bellezza dell’amore come solo il vero amore può essere. Tanto che il poeta si commuove, probabilmente pensando ingiusta la loro condanna all’inferno, un inferno, quello medievale, che proprio come in vita, ripeteva nell’al di là i medesimi concetti opprimenti della vita: pagare per aver disobbedito alle regole del potere. Dante subisce tutto questo, ma il dolore che prova è tale da farlo crollare a terra. Viene da chiedersi che cosa significasse davvero l’inferno per il poeta toscano: una rappresentazione della crudeltà della vita reale, forse.
Chissà se gli insegnanti di oggi, a differenza di quelli dei tempi di Antonello Venditti, sanno esaltare questa pagina di bellezza assoluta. O agli studenti tocca ancora leggere un libro di nascosto sotto ai banchi, come abbiamo fatto in tanti, per sfuggire alla noia.