Al termine del film Dante di Pupi Avati si resta delusi, con la sensazione di avere in mano solo una manciata di frammenti, per la maggior parte poco significativi.
Allo stesso tempo, però, ci si rende conto di che razza di romanzo sia stata la vita del nostro più grande poeta. L’infanzia e l’adolescenza, segnata dall’incontro decisivo e incancellabile a nove anni con la piccola Beatrice. L’ingresso nell’età adulta, che si apre con il secondo incontro con la “donna de la salute”, si rafforza con le prime esperienze poetiche, la stretta amicizia con Guido Cavalcanti, la vita da giovane mondano e culmina con il drammatico impatto con la realtà: prima a Campaldino (dove dà la morte e sfiora la morte), poi davanti al feretro di Beatrice.
Seguono anni durissimi, di depressione e sfinimento interiore, da cui però esce il fiore della Vita Nuova. Poi lo studio matto e disperato della filosofia per trovare consolazione. Quindi l’impegno politico, la scalata al priorato, con tutto quello che ne consegue. E poi la drammatica vicenda dell’esilio, con l’abbandono di Firenze, della famiglia, di ogni cosa più cara. E l’esperienza del dubbio, della precarietà, della povertà. Il tozzo di pane mendicato “a frusto a frusto”, salendo e discendendo le scale dei potenti. Le fughe, lo smarrimento della via, forse la tentazione del suicidio, la vita sempre più somigliante ad un faticoso pellegrinaggio o alla purgatoriale salita di un monte impervio. E poi la visionaria idea del grande poema e la dedizione ad esso, fino all’ultimo respiro su questa terra.
Una storia da togliere il respiro! Cosa non ha vissuto quest’uomo? Cosa non ha patito? Fin dentro quale inferno non è sceso? Fino a quale paradiso non è salito? E, in più, la sua vita è stata “fiorita”, vissuta, interpretata, interiorizzata, donata a tutti noi con e dalla sua altissima poesia. Il racconto di questa vita non può esimersi dalla citazione devota di versi immortali.
Ora, tutta questa densità e questa ricchezza non possono ovviamente essere contenute in un film di un’ora e mezza, quindi la delusione è fisiologica, quasi messa in conto prima ancora della sigla d’inizio. Ma sovrapporre al racconto di questa vita la vicenda di un Boccaccio (che per necessità di cose resta appena abbozzato) che viaggia da Firenze per giungere a Ravenna e incontrare suor Beatrice (al secolo Antonia), la figlia di Dante… questo appare quanto meno masochistico! Intere scene che raccontano il viaggio di Boccaccio risultano davvero un di più, tolgono minuti preziosi al racconto della vita di Dante e alla sua poesia e non hanno la capacità di fornirci un filo convincente, un nucleo forte (“cardinale”, per usare proprio un’espressione dantesca) intorno al quale restare avvinti.
Di qui la delusione, la sensazione di restare in mano con dei cocci, alcuni dei quali molto belli e commoventi, in verità, come quelli dei due incontri con Beatrice, a nove e diciotto anni. Lampi che brillano, illuminano per un istante, e poi si perdono in una sorta di grigiore.
Dante lo sapeva benissimo che erano dei lampi e anche lui sentì l’angoscia di perderli, sentì l’aggressione del grigiore. Ma tutta la sua vita fu un tentativo di riportarseli alla memoria, di recuperarli, di capire fino in fondo cosa era accaduto, quale segno di un misterioso oltre ci fosse in quello sguardo che lo aveva raggiunto. Lui cercò proprio di dare unità al suo particolarissimo film. Di tenere in mano il filo di quello che era accaduto. E così la vita divenne densa di significato, la strada un tendere alla meta e il quadro grigio acquisiva colori e il puzzle si riempiva di tessere mancanti.
Bisognava fare delle scelte, non c’è dubbio, isolare dei momenti significativi di quel romanzo. Sarebbe bastato, ad esempio, concentrarsi sulla Vita Nuova e portarla al cinema. Rimprovero a Pupi Avati di aver fatto le scelte sbagliate e mi chiedo se questo non sia la conseguenza di una sorta di pavidità, di soggezione non solo davanti a Dante, quanto (e questo è ben più grave) di fronte al mondo accademico e a un pubblico sempre più disabituato non tanto a sentirsi narrare, ma anche solo a concepire un’esperienza come quella di Dante. Che è quella di un grande, grandissimo amore, umano e divino.
Pupi Avati sa bene, lo ha dichiarato in un’intervista, che c’è un “per sempre” che la gente non capisce più, perché i prodotti dell’industria culturale non lo sanno o proprio non lo vogliono più dare, mentre Dante e la sua vicenda parlano proprio di quel “per sempre”. Lo ha capito, lo sa, ma poi non ne ha fatto la stoffa del suo racconto.
Se il problema era “avvicinare” Dante, “renderlo più umano” (bisogno sentito anche a fronte di un insegnamento scolastico che lo ha da sempre ridotto ad un relitto storico, segnando sempre e soltanto le distanze di epoca, di concezione della vita, di fede rispetto all’oggi), non erano certo le scene di sesso a letto che potevano servire allo scopo. Avati non ha voluto spingere il pedale su ciò che davvero ci avvicina Dante. Purtroppo.
Per capirci: dal trentesimo canto del Paradiso Avati recupera un verso fondamentale: “Ed io ch’al fine di tutt’i disii appropinquava…”. Fondamentale perché parla a tutti noi oggi e dice: il tuo desiderio, la stoffa stessa della tua vita e di quella di ogni altro uomo, quella sete che ti perseguita e ti lascia insoddisfatto è fatta per essere colmata. La vita è una commedia, finisce bene se solo mi segui, dice Dante. Bisognava avere il coraggio di seguirlo fino in fondo.
Ma il film si conclude con un’altra frase ad effetto (“Sapeva i nomi di tutte le stelle”), che se coglie bene la prodigiosa dottrina e sapienza di Dante, non ce ne rende però lo spirito profondo. Perché nell’ultimo verso del suo grandissimo poema egli ci dice che ha capito una cosa: che niente di più grande può esserci dell’esperienza diretta di Dio, del suo amore. Che in questa esperienza si ricapitola tutto ciò che si è visto, incontrato, conosciuto: la bellezza e l’armonia dell’universo, i vizi e il valore degli uomini, le vicende esaltanti e dolorose del proprio personale romanzo, la luce intravista negli occhi di una bimba di nove anni.
Al film di Pupi Avati manca il nodo, quello che lega con amore tutto ciò che “si squaderna” nel mondo. Quello che Dante vide in Dio.
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