DARREN CAHILL, PARLA IL COACH DI JANNIK SINNER
L’intervista che Darren Cahill ha rilasciato a Repubblica è una sorta di clinic: il cinquantasettenne australiano è il nuovo coach di Jannik Sinner, attuale numero 11 del ranking Atp e impegnato domani negli ottavi del Miami Open contro Andrey Rublev. Sinner, che da qualche tempo ha interrotto lo storico rapporto di collaborazione con Riccardo Piatti, si allena con Simone Vagnozzi ma adesso anche Cahill è entrato nel team: lo chiama scherzosamente la “mafia” italiana (non c’è alcuno spazio per le offese, è una battuta senza malizia) perché è l’unico straniero a farne parte.
Riavvolgendo il nastro, Cahill è stato un tennista mediocre: buono, anzi forse ottimo doppista, a livello di singolare ha vissuto il momento più alto della carriera quando agli Us Open 1988 ha battuto Boris Becker (tra l’altro 6-3 6-3 6-2) e, sfruttando un tabellone aperto, si è spinto fino alla semifinale dove è stato travolto da Mats Wilander, in procinto di diventare numero 1 al mondo e vincitore del torneo due giorni più tardi. Cahill si è reinventato coach, e quello che ha raccontato è molto interessante: non solo su Sinner, ma partiamo da questo.
IN COSA DEVE MIGLIORARE SINNER
Darren Cahill racconta che quando ha iniziato a lavorare con Sinner ha trovato un tennista già pronto: Top 10, solidissimo da fondo, bravissimo negli spostamenti. Come migliorarlo? È interessante quello che il nuovo coach dice: al netto degli aspetti tecnico/tattici (“il servizio, il gioco di transizione, il dominio da fondo campo”) Cahill si concentra sulla mentalità: “Bisogna lavorare sui match contro i migliori, capire cosa li trattiene dal batterli”. La mente corre a quel paio di partite contro Stefanos Tsitsipas, o alla grande battaglia contro Carlos Alcaraz agli Us Open (lo spagnolo lo ha poi battuto anche a Indian Wells: nei momenti davvero importanti ha sempre vinto l’attuale numero 1).
Vero, lo dice la carriera (sia pure giovanissima, sia chiaro) fino a questo momento: Sinner dà sempre e comunque la sensazione di poter spingersi fino al titolo, ma quando si trova di fronte un big (altro esempio recente: Daniil Medvedev nella finale di Rotterdam, un altro match che Sinner ha perso venendo rimontato) tende a subire psicologicamente, prima che tecnicamente, l’avversario. La ricetta? Esiste, ma certamente non è un qualcosa che funzioni in automatico: “Servono almeno due anni, serve lavorare, servono situazioni di partite” spiega Cahill. Vale a dire: non è diventando fortissimi che si arriva, contro i migliori bisogna continuamente giocarci.
LA “RICETTA” DI CAHILL
In soccorso viene il passato di Cahill che, da giocatore discreto, racconta di aver sempre dovuto “vedere il gioco”: individuare i punti deboli dell’avversario, capire come batterli, non potendo contare sulla loro superiorità. In questo modo Killer, così viene chiamato da tutti, ha aiutato un giovanissimo Lleyton Hewitt a vincere Wimbledon e diventare numero 1; così ha spinto Simona Halep che, ricorda lui, era schiacciata dalla pressione di tutto un Paese che le chiedeva di diventare la più forte, a essere effettivamente la leader del circuito Wta. Così, anche, ha permesso a un Andre Agassi già trentaduenne, e che aveva vinto tutto, di giocare altre cinque stagioni.
Ecco, soffermiamoci su Agassi: di lui Cahill dice di non aver mai incontrato, né prima né poi, un altro tennista che fosse tanto affamato di informazioni sugli avversari, al punto di chiedergli cosa sarebbe successo se avesse colpito la palla in un certo modo contro un determinato giocatore. Questo non è talento, questa è dedizione e soprattutto studio, lavoro costante: questo, forse, spiega anche perché alcuni tennisti vincono e altri si fermano sempre quel passo prima. Cahill è nel team di Jannik Sinner per questo: per aiutarlo a fare quello step mentale in più. Poi, come afferma a chiusura dell’intervista, bisogna anche essere al posto giusto nel momento giusto.