Il Darwin-Day che ricorre oggi 12 febbraio è l’occasione per celebrare un grande botanico e viaggiatore che diede voce alle intuizioni preesistenti sull’evoluzione della vita sulla terra. Ed elaborò una teoria secondo la quale il caso e la lotta sono le due arcate portanti di come la vita si è sviluppata nei millenni. Per quelle che erano le conoscenze dell’epoca questo era un passo enorme, perché superava le teorie di Lamarck mai dimostrate, secondo cui l’evoluzione avveniva esclusivamente per immagazzinamento e trasmissione ereditaria di un nuovo carattere del corpo, come la lunghezza del collo o il colore del piumaggio.



Entrambi, Darwin e Lamarck, superavano anche un pensiero che voleva le specie immutabili nel tempo e che trovava anche esso gravi problemi ad essere sostenuto.

Oggi sappiamo molto più. Lo abbiamo descritto di recente sulle pagine de ilsussidiario.net in un’inchiesta durata dieci settimane, riportando le più recenti acquisizioni della scienza. Lo ribadiamo qui, in questa occasione internazionale, per riportare i dati ora noti, e per fare una chiarificazione finale.



Darwin pensava che l’evoluzione ha la forma di un albero, fatto di un progenitore comune (il tronco) e specie che nascono da esso (i rami) e quindi famiglie di esseri sempre più differenziate tra loro. Ma esiste un livello di combinazioni e rimaneggiamenti tra i “rami”, per il quale le specie hanno nei millenni passato tra di loro parti del loro Dna o addirittura si sono fuse tra loro; e questo Darwin non poteva saperlo, pur restando un grande scienziato.

Quel che Darwin poi non sapeva, era l’esistenza dell’epigenetica: certi fattori ambientali (inquinamento, carestie, ma anche l’illuminazione ecc.) possono alterare il modo in cui viene letto il Dna, cioè il modo in cui il Dna parla. L’ambiente non provoca mutazioni del Dna, ma fa parlare dei geni che sarebbero rimasti silenti. Questo è un bel passo avanti, che ci dice che il Lamarck non aveva tutti i torti, seppur non fosse riuscito a dimostrare niente di quel che diceva. Infatti le modifiche di espressione del Dna indotte dall’ambiente sono ereditabili per varie generazioni.



Quindi  l’idea di un’evoluzione dovuta solo a casuali mutazioni di geni e ad una loro persistenza nella progenie perché chi non aveva la nuova mutazione moriva, non regge. C’è un’altra via di evoluzione: l’ambiente che influenza il Dna. La scienza ufficiale era tanto certa del credo darwiniano che fino a vent’anni fa avevano creduto ciò impossibile, e riteneva che l’ambiente non potesse influenzare il Dna. Lo avevano chiamato il “central dogma” della biologia; e pareva incrollabile. Fino a vent’anni fa. Ma poi hanno scoperto, in una specie di rospo spadefoot,  che quando per il cambiamento ambientale diventava carnivoro e aggressivo, lo stadio del girino carnivoro aggressivo si radicava trasmettendosi alle generazioni successive anche quando l’ambiente non lo richiedeva più. Una risposta all’ambiente si era stabilizzata. E questo ha fatto crollare il dogma.

C’era poi qualcosa che Darwin non sapeva spiegare: la sopravvivenza dei gruppi solidali. Quelli in cui un soggetto per istinto è portato a sacrificare la vita per la sopravvivenza degli altri, come accade per le api in cui una va all’attacco, punge e muore per salvare l’alveare, o come accade per l’istinto materno di sacrificio per i figli. Per esempio in molte specie di erbivori (cervi, daini, gazzelle) si trovano degli individui che segnalano la presenza di eventuali predatori stando di guardia ed esponendosi quindi a rischi molto maggiori che il resto del branco. Allora quest’idea tanto cara all’epoca vittoriana di una sopravvivenza del più adatto a scapito degli altri meno adatti, che tanto bene si adattava alla supremazia imperialistica inglese-europea sul resto del mondo “incivile” (a detta loro), non regge più. Così come non regge più l’idea del caso come unico motore dei cambiamenti vitali, dato che pare proprio che la collaborazione e la necessità siano una forza altrettanto forte.

Alla fine vediamo come realistico il quadro in cui accanto al racconto darwiniano del caso-lotta convive un altro racconto: quello della collaborazione ambientale come motore della vita, in cui le specie e gli individui non sono solo nemici ma anche collaboratori. Sono due strade apparentemente antitetiche, ma chi l’ha detto che il mondo è semplice? Anzi, dobbiamo riconoscere  impossibile l’ambizione a descrivere con formule semplici un mondo fisico in cui siamo osservatori isolati e limitati, come un pesciolino rosso che volesse conoscere per intuizioni e deduzioni la città in cui si trova l’ampolla di vetro in cui vive. Ma l’idea che la collaborazione e la solidarietà siano su un piatto della bilancia con peso almeno pari a quello della competizione ci solleva il morale.

Quello che Darwin non sapeva o che non sapeva spiegare, oggi si sta rivelando agli scienziati; ed è un campo prolifico e sterminato: apre all’intuizione di cosa è stato lo sviluppo della vita sulla Terra. E come diceva Enzo Tiezzi, grande filosofo e chimico illustre, l’evoluzione è avvenuta per via stocastica, cioè una combinazione di caso e necessità, di lotta e collaborazione.

Buon compleanno allora al darwinismo: siamo sicuri che Darwin, da bravo scienziato, si sarebbe tolto il cappello per salutare l’alba di questi nuovi sviluppi di cui lui, in qualche modo, è precursore e coartefice.