La crescita parallela del Pil e dell’occupazione nel mese di giugno conforta le previsioni favorevoli per il sistema Italia, che trovano concordi le istituzioni internazionali, il nostro Governo e le stesse associazioni delle imprese.

L’Istat segnala un balzo della crescita del Pil nel secondo trimestre del 2021 pari al 2,7% rispetto al precedente, e del 17,5% rispetto al giugno 2020. Numeri che autorizzano una proiezione per l’anno in corso, Covid permettendo, che potrebbe agevolmente superare il 5%, recuperando due terzi delle perdite subite nel corso dell’emergenza sanitaria, e un completo recupero nella prima parte del prossimo anno.



Altrettanto sta avvenendo sul versante dell’occupazione, con una crescita di 166 mila posti di lavoro nel solo mese di giugno, che per la prima volta riguarda tutte le tipologie di lavoratori, compresi quelli autonomi, di età e di genere. La gran parte dell’aumento è relazionato alla crescita dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato (+117 mila). Quella dei rapporti a termine si era già concretizzata, come nel primo trimestre dell’anno (+225 mila), con il manifestarsi dei primi segnali di ripresa. Numeri che confermano il ritorno della fiducia sulle prospettive economiche da parte delle imprese e dei consumatori già evidenziati in una recente rilevazione dell’Istat.



Il progressivo ritorno alla normalità nel mercato del lavoro viene riscontrato anche nel raffronto con i dati del mese di giugno dello scorso anno, con il recupero di 266 mila occupati, saldo derivante dal forte recupero della componente del lavoro dipendente (+490 mila) rispetto alla consistente perdita di quello autonomo (-223 mila). Ma, in particolare, nel consistente svuotamento del bacino delle persone inattive (-592 mila) che sono tornate a cercare lavoro, contribuendo formalmente anche alla crescita del numero dei disoccupati (+81 mila) che, nella fattispecie, deve essere valutata come un segnale positivo.



Parte di questi dati positivi, in particolare quelli della crescita dei lavoratori a tempo indeterminato, vanno letti anche alla luce delle nuove tecniche di rilevazione adottate dall’Istat nel 2021, che escludono dal numero degli occupati i lavoratori in cassa integrazione a zero ore da più di tre mesi. Persone che formalmente non hanno perso il lavoro e che sono tornate nella condizione precedente, in relazione alla ripresa delle attività delle imprese e alla progressiva riduzione dell’utilizzo delle Cig.

Il consolidamento di queste tendenze nei prossimi mesi dipenderà essenzialmente dal successo della campagna di vaccinazione e della conseguente ritorno alle normali attività. Al momento la ripresa dell’inflazione non viene considerata un elemento preoccupante dalle autorità monetarie, che hanno confermato le politiche espansive adottate nel corso della crisi Covid.

Il contributo alla ripresa dell’economia è ormai più che completato per la componente dell’industria manifatturiera e delle costruzioni, e per i comparti dell’agricoltura. Ma rimane sottodimensionato per diversi settori dei servizi, in particolare per l’alberghiero, la ristorazione, le attività ricreative e i servizi alle persone per un complesso che impatta su poco meno del 20% del Pil e del 40% degli occupati precedenti la crisi Covid. Nel contempo non vanno sottovalutate alcune criticità che si sono già manifestate in coincidenza con i primi segnali della ripresa economica.

La più evidente è la relativa difficoltà nel reperire le risorse umane con competenze e aspettative coerenti con i nuovi fabbisogni professionali. Il 31% di difficile reperibilità segnalato dalle indagini Excelsior del ministero del Lavoro, e che riguardano in modo consistente anche i profili di media e bassa qualificazione, è un dato drammatico.

È ancor più drammatica la distanza esistente tra queste criticità e le energie che vengono profuse in ambito politico per aumentare i sostegni al reddito per difendere posti di lavoro economicamente esauriti. Questo è un problema estremamente serio, e lo può diventare ancor di più se teniamo conto delle caratteristiche dei settori dei servizi, con elevate componenti di lavoro a termine e stagionale, non particolarmente appetibili per i beneficiari dei sostegni al reddito, ma che potrebbero offrire un contributo importante per la crescita dei posti di lavoro nei prossimi anni.

L’attesa messianica dell’avvento delle politiche attive del lavoro in grado di ridurre queste criticità, per il momento viene essenzialmente utilizzata per giustificare l’ampliamento dei sussidi al reddito. Più ragionevolmente sarebbe opportuno che, in modo pragmatico, le istituzioni e le parti sociali si facessero carico di promuovere nei territori dei sistemi di incontro tra domanda e offerta di lavoro, accompagnati da percorsi di formazione personalizzati da svolgere anche nell’ambito delle imprese, e che consentano ai lavoratori di poter usufruire nuovamente delle indennità di disoccupazione nel caso di una mancata riconferma del contratto a termine.

L’esempio da seguire è quello messo in campo dalle aziende della Confindustria di Brescia, che si sono rese disponibili ad assumere il lavoratori licenziati da un’importante multinazionale presente nel territorio. Esperienze che si potrebbero estendere in molti comparti agricoli, nei distretti turistici, per i servizi alle persone, coinvolgendo gli operatori pubblici e privati per l’impiego e mobilitando i beneficiari del Reddito di cittadinanza e di altri sostegni al reddito, in grado di lavorare.

Per rendere sostenibili le transizioni lavorative non servono le polemiche, ma ampliare le buone pratiche.

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