Il commento dell’Istat è sintetico, ma in pochi concetti rappresenta la situazione del mercato del lavoro a dicembre del 2020. L’occupazione – è scritto – torna a diminuire, interrompendo il trend positivo che tra luglio e novembre aveva portato a un recupero di 220 mila occupati; il calo occupazionale è concentrato sulle donne e coinvolge sia i dipendenti, sia gli autonomi. Inversione di tendenza anche per la disoccupazione che, dopo quattro mesi di progressivo calo, torna a crescere portando il tasso al 9%.



OCCUPATI
Gennaio 2015-dicembre 2020, valori assoluti in milioni, dati destagionalizzati

Fonte: Istat

I livelli di occupazione e disoccupazione sono inferiori a quelli di febbraio 2020 – rispettivamente di oltre 420 mila e di quasi 150 mila unità – e l’inattività risulta superiore di oltre 400 mila unità. Rispetto a febbraio 2020, il tasso di occupazione è più basso di 0,9 punti percentuali e quello di disoccupazione di 0,4 punti. Le ripetute flessioni congiunturali dell’occupazione registrate tra marzo e giugno 2020, unite a quella di dicembre, hanno portato – aggiunge l’Istat – l’occupazione a un livello più basso di quello registrato nel dicembre 2019 (-1,9%, pari a -444mila unità). La diminuzione coinvolge uomini e donne, dipendenti (-235mila) e autonomi (-209mila) e tutte le classi d’età, a eccezione degli over50, in aumento di 197mila unità, soprattutto per effetto della componente demografica.  



Come si può notare – soprattutto se si aggiunge il numero dei rapporti non attivati – il blocco dei licenziamenti che passa da una proroga all’altra è una misura discutibile  anche sul piano di una logica strettamente e tenacemente difensiva dell’esistente. Ma, come chi scrive ha più volte sostenuto, a partire dal primo blocco all’inizio dell’anno scorso, sarà molto difficile che i sindacati rinuncino a questa illusoria e pigra sicurezza, a costo di obbligare l’economia a restare prigioniera del passato.

TASSO DI DISOCCUPAZIONE
Gennaio 2015 -dicembre 2020, valori percentuali, dati destagionalizzati



Fonte: Istat

La crisi di governo non consente di fare previsioni affidabili. Le forze politiche e sociali che invocano un cambiamento però sono avvertite: se l’apparato produttivo non  riesce a superare la logica dei ristori al posto dei fatturati, delle politiche passive in sostituzione del reddito, il Paese non sarà in grado di intraprendere un percorso di ripresa, che, peraltro, non ha alternative credibili. Le risorse del Next Generation Eu non saranno mai disponibili per un mero ruolo di immobilismo assistito. La pandemia non è “una notte in cui  tutte le vacche sono nere”. Anche se il saldo è nel complesso negativo, vi sono settori che hanno registrato una forte crescita e che magari hanno progetti espansivi per quanto riguarda l’occupazione, ma l’offerta non è in grado di corrispondere in toto alla domanda. 

Sappiamo bene quanto sia difficile sviluppare politiche attive. Lavorare una pratica di Cig è più facile (se le norme sono chiare e non presentano i problemi riscontrati lo scorso anno) che mettersi al centro dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Occorre conoscere il mercato in uno specifico territorio, interpretare le esigenze delle imprese a partire dall’orientamento professionale. Poi, inevitabilmente e come sempre è avvenuto, gli squilibri del mercato del lavoro presenteranno il conto anche al sistema pensionistico e alle opportunità che sono o saranno aperte nell’ avvalersi della quiescenza come di un fattore di protezione sociale. È una pratica vecchia come il cucco che va assunta con oculatezza, con razionalità e con attenzione – maggiore che in altre occasioni – a criteri di rigore.  

Certo, non tutte le aziende sono in grado di gestire gli esuberi come ha fatto l’Enel d’accordo con i sindacati.  Nell’accordo sottoscritto in data 26 gennaio le Parti prevedono un incentivo all’esodo (ovviamente volontario) la cui quantificazione dell’importo è commisurata al periodo di tempo intercorrente tra la data di cessazione dal servizio e quella prevista per la maturazione dei primi requisiti utili a oggi vigenti per la pensione anticipata o di vecchiaia. Tale importo lordo onnicomprensivo è determinato nella misura di due mensilità cui si aggiunge mezza mensilità per ogni mese di anticipo rispetto alla data sopra indicata. Al riguardo, la cessazione dovrà avvenire alla prima data utile, determinata in rapporto alla decorrenza della “pensione quota 100” (comprensiva della c.d. “finestra”) o entro il 31 marzo 2021 qualora il dipendente intenda comunque anticipare la risoluzione del rapporto. In fondo la logica sembra essere ancora quella degli esuberi incentivati che a suo tempo produssero il fenomeno degli esodati. Con l’aria che è tirata fino adesso non dovrebbe esservi la prospettiva di un incremento dell’età pensionabile come avvenne nel 2011. Ce ne sarebbe la necessità se osserviamo i guai del sistema pensionistico. Ma com’è sempre accaduto nella storia del dopoguerra il sistema non sarà insensibile al grido di dolore del mercato del lavoro.