È il 1972, le missioni spaziali sulla Luna stanno per terminare, e nell’ultimo mese dell’anno l’ultima impronta sul terreno selenita verrà impressa dagli astronauti di Apollo 17.
Le terapie musicali che accarezzano le menti delle giovani generazioni vengono fagocitate dal music business che racimola i nuovi talenti in terra d’Albione fra una nuova leva di artisti che cercano faticosamente di esplodere attraverso le loro nuove proposte. La forma canzone era stata abrogata nel tentativo di dare vita a strutture musicali più elaborate dove l’estro artistico di musicisti estremamente dotati dava sfoggio di qualità tecniche di tutto rispetto, e le loro opere sfondavano gli argini del rock e del blues per contaminarsi con la musica classica e il jazz.
King Crimson, Emerson Lake & Palmer, Yes, Genesis, Van Der Graf Generator sono solo alcuni dei nomi dei nuovi gruppi che imprimono un’accelerazione formidabile a tutto un panorama musicale orfano dei Beatles, che vede nei Rolling Stones e negli Who i portavoce di un decennio mirabolante che appartiene già al passato. È l’anno di “Exile On Main Streets”, la “bibbia” musicale che gli Stones registrano fra mille eccessi e che funge da ponte fra un prima e un dopo che ancora rimane allo stato gassoso, come un pianeta che si sta solidificando fra le spire di correnti gravitazionali che cortocircuitano energie, ispirazioni e tanti tentativi che vanno a vuoto.
Un giovane cantautore londinese di Brixton cerca con tutte le sue forze di rompere l’anonimato. Ha al suo attivo già quattro album regolarmente finiti nel cestino dei rifiuti delle classiche. Il suo nome è David Bowie, detentore di un solo successo col singolo “Space Oddity” del 1969, di contro ad una carriera intrapresa fin dal 1964 con tanti gruppi che si muovevano nell’ordalia della mod generation.
Il suo nuovo album narra le disavventure di un personaggio impossibile che comunica fra Terra e cielo il messaggio di extraterrestri che scrutano un’umanità in perenne bilico fra progresso e autodistruzione.
“The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars” sembra la cronaca di anni convulsi e confusi, dove la controcultura si avvita su sé stessa, le illusioni hippy muoiono di morte naturale, i bisogni primari delle nuove generazioni si nutrono del culto del proprio corpo, attraverso identità che sfuggono alla dicotomia di genere e ingaggiano sfide ingenue ma terribili contro una realtà ai loro occhi grigia e sconfortante.
L’album è una celebrazione del rock’n’roll più puro e basilare attraverso una revisione intrisa di una nuova aura di eclettica sensualità, dove emerge la fascinazione di un mondo tecnologico che apre le porte a mille nuove possibilità che fa a pugni con incapacità dell’uomo a gestire un progresso che rischia di annientarlo. Non è un caso che la prima canzone del disco, “Five Years”, sfregi il volto del quieto vivere di un’umanità a cui rimangono soltanto cinque anni di tempo prima della catastrofe cosmica che segnerà la fine del genere umano.
In questo contesto si snoda la narrazione che si arricchisce brano dopo brano di nuove suggestioni, in cui la vicenda tutta terrestre della rockstar Ziggy Stardust fa capolino poco per volta, in un panorama di ebbrezza e di autocompiacimento del personaggio il cui ego cresce a dismisura fino all’autodistruzione finale.
La musica è quanto mai diretta, si nutre e divora a quattro ganasce tutto quello che il rock’n’roll aveva creato e ricreato fino a quel momento.
Canzoni come “Moonage Daydream”, “Hang On To Yourself”, “Sufragette City” finiranno per diventare dei veri e propri inni imparati a memoria da ragazzine e ragazzine che rimarranno contagiati dal fascino sottile e ridondante che il nuovo personaggio interpretato dall’artista interpreterà sul palco durante l’interminabile sequela di concerti che terrà fra Gran Bretagna, Stati Uniti d’America e Giappone, con tappe turistiche che lo porteranno perfino sulla Piazza Rossa di Mosca.
Ma è una canzone, “Starman”, che lega indissolubilmente il successo di David Bowie alla dimensione sconfinata degli spazi siderali. L’astronauta di “Space Oddity” sta tornando sul nostro pianeta, ma lo trova così differente che viene scambiato per un alieno. Lo “Starman” di questa canzone ha tantissime cose da raccontarci, ma sa che tutti noi potremmo essere spaventati a morte da ciò che ha da rivelarci, perciò preferisce fluttuare in orbita attorno al nostro pianeta, e delegare la sua verità a Ziggy Stardust, che a sua volta non riuscirà a mantenere l’equilibrio necessario per gestire la sua fama sopravvenuta, e finirà per essere annichilito da quel potere piovutogli addosso dalle stelle.
David Bowie non scrive storie a lieto fine, è lontanissimo dalle favole e dalle facili concessioni.
La sua narrazione segue un filo rosso che unisce costantemente le sue storie, anche se talvolta si fa invisibile, proprio per solleticare in ognuno di noi il desiderio della ricerca, della riflessione e, infine, il gusto della scoperta.
Ma tanti possono essere i significati che emergono, specialmente se i riferimenti iniziali sono molteplici, e l’artista si inventa un nuovo alter ego, che arricchisce la galleria dei personaggi con un altro interprete.
Major Tom ha maturato la sua nuova possibilità di sopravvivere, nella prospettiva di non essere più riconosciuto. Non è più un hippy, non è più un elegante dandy che si diverte a confondere il proprio genere sessuale, non è più un semplice essere di questo pianeta. E’ mutato nel corso degli anni, a livello genetico ed esistenziale. E’ diventato un alieno, lui, il più umano di tutti, in quanto animato intimamente dalla volontà della conoscenza.
L’iniziazione dell’artista approda ad una nuova tappa.
Il suo linguaggio è diventato accessibile ad un grande pubblico, finalmente, e la scritta dietro la copertina del suo album recita “To Be Played At Maximum Volume”.
E se sono solo cinque gli anni che rimangono ad un’umanità atterrita e confusa, saranno undici (dieci più uno) le canzoni che faranno di questo album di rock’n’roll una fantastica esplosione, una supernova che ancora oggi brilla nel firmamento dell’immaginario collettivo.
“Starman” si rivela nella maniera più semplice, apparentemente banale:
“Non sapevo che ora fosse e le luci erano basse
Mi appoggiai alla mia radio
Qualche tizio stava mandando su qualche rock’n’roll
con così tanto spirito, egli disse
Poi il suono forte sembrò come sfumare
E tornò indietro come una voce lenta su un’onda di fase
Non era un DJ, era una confusa danza cosmica”
Siamo nella dimensione quotidiana di una qualsiasi abitazione, e il mezzo di diffusione della notizia non è neppure il più tecnologicamente avanzato dell’epoca, la televisione, ma la radio.
Comune e banale, ma proprio per questo destinata a diventare accessibile a tutti, “Starman” è l’extraterrestre che bussa alla nostra porta con gentilezza, attraverso le note dolci di una ballata tanto semplice quanto perfetta.
L’uovo di Colombo.
“C’è un uomo delle stelle che sta aspettando nel cielo
Gli piacerebbe venire e incontrarci
Ma pensa che potrebbe shoccare le nostre menti
C’è un uomo delle stelle che sta aspettando nel cielo
Ci ha detto di non cacciarlo
Perché lui sa che ne vale la pena
Mi disse:
lascia che i bambini lo perdano
lascia che i bambini lo usino
lascia che tutti i bambini ballino”
Major Tom è lo Starman, sa che non sarebbe più riconosciuto, la lontananza lo farebbe apparire come un essere alieno. In fondo la sua Terra era differente, il suo tempo era qualcosa di assai diverso da questo.
La notizia finalmente corre:
“Dovevo chiamare qualcuno così ho scelto te
Hey, è tanto forte che l’hai sentito anche tu
Accendi la TV
potremmo magari prenderlo sul secondo canale
Guarda fuori dalla finestra, riesco a vedere la sua luce
Se facciamo segnali potrebbe atterrare stanotte
Non dirlo al tuo papà o ci farà rinchiudere impaurito”
Presenza e assenza. Il segreto del successo.
Major Tom/ Starman rimarrà nascosto, mentre David Bowie diventerà Ziggy Stardust, e da questo gioco delle parti nascerà il grande successo degli anni settanta, che proietterà verso l’Olimpo del rock il suo ideatore. David Bowie diventa in questa maniera il nuovo archetipo di rockstar, relegando nel passato mostri sacri, che da quel momento lo osserveranno con attenzione per carpirne i segreti. Il colpo di teatro arriva alla fine. Si chiama “Rock’Roll Suicide”
Una canzone come Rock’n’roll Suicide è sinceramente tremenda nella sua auto celebrazione nichilista di un trionfo perfetto che rischiava di essere una roulotte russa, con il proiettile minacciosamente inserito nel tamburo della pistola. Ziggy era perfetto: la perfezione raggiunta dopo tentativi reiterati e regolarmente terminati con un buco nell’acqua. Una minaccia.
Replicare il copione poteva significare trasformare la sorpresa e lo stupore in un deja vu, riciclando una novità in una coazione a ripetersi che dopo qualche tempo avrebbe generato solo noia. Lo avrebbe scoperto il povero Marc Bolan sulla sua pelle.
Folle, pazzo, schizofrenico, incostante: aggettivi che accompagnarono Bowie almeno fino al 1976, parole impietose vergate da critici anche famosi che mal digerivano un cantante che con assoluta nonchalance avrebbe varcato i confini fra il glam rock e la black music infischiandosene di tutto e di tutti, sfoggiando risatine isteriche al Dick Cavett Show agitando nervosamente un bastoncino da passeggio.
Rock’n’roll Suicide era sempre in agguato, l’ombra cupa di un fratellastro rinchiuso in un ospizio per pazzi, il successo che poteva sciogliersi come panna montata sopra un dolcetto così buono e facile da divorare in un solo boccone.
C’era chi pensava che il rock fosse musica da bordello oppure una sagra di sonorità perfette per adolescenti in crisi ormonale, ricredendosi più tardi dopo che poeti autentici avevano affidato alle sei corde delle loro chitarre versi estremi che avevano fatto a pezzi la storia.
Rock’n’roll Suicide: Ziggy era perfetto, troppo perfetto, bisognava ucciderlo. Timore e tremore: solo chi osa vince.
Le canzoni di questo album sono la sublimazione assoluta di uno sforzo tremendo, il conato di vomito di uno spastico che riesce a reggersi in piedi e scopre finalmente di potercela fare a camminare, e d’un tratto inizia a correre tanto forte che nessuno riesce più a stargli dietro. Il giovane mod aveva lasciato il passo a un cantautore pop molto particolare in bilico fra Tony Newley, con l’acido lattico che corrode i muscoli di chi stressa il suo fisico con l’ansia di prestazione, quasi che l’orgasmo del successo fosse l’incubo di un continuo coitus interruptus. Il freewheelin’ cosmico di Space Oddity si era trasformato nell’uomo che aveva venduto il mondo, lo stesso che si chiedeva in un grigio pomeriggio londinese se quella realtà troppo banale potesse essere squarciata da qualche segnale di vita su Marte.
Sogni, incubi, schizofrenia, il Tibet, l’ansia di prestazione che si sublimava nelle lezioni di mimica di Lindsay Kemp, una bisessualità vissuta fra un matrimonio con paternità e pulsioni che non venivano soppresse.
Ziggy fu il punto d’arrivo di una gara a ostacoli dove il corridore finiva regolarmente col muso spiaccicato sulla pista, perché l’ostacolo era sempre posto a qualche centimetro troppo in alto. Rock’n’roll Suicide, l’ombra della morte, l’incubo tragico che spronò un giovanotto dallo sguardo stranito e con i denti storti a diventare il più grande artista della cultura popolare occidentale.
I tour che seguirono questo disco e il seguente, “Aladdin Sane”, furono la folle corsa di un cantautore differente che rimaneva aggrappato con le unghie e con i denti a un successo tanto agognato e finalmente raggiunto, fra tanti travestimenti, ostentata ambiguità sessuale e ricerca spasmodica del colpo ad effetto.
Uomo, artista e personaggio parevano coincidere in maniera drastica brutale.
Con un perentorio colpo di pistola alle spalle Bowie si liberò di Ziggy Stardust all’Odeon di Hammersmith il 3 luglio del 1973 alla fine del concerto londinese che chiudeva l’ultimo giro di boa degli Spiders From Mars.
Fu la fine di una disperata ricerca, e l’inizio di una carriera folgorante che fece di David Bowie un’icona della cultura contemporanea.