La sua (e nostra) “strana” bandiera freak non sventolerà più. Quei lunghi capelli a cui aveva dedicato un brano, con l’intenzione di tagliarseli perché cominciavano “a dargli fastidio”, non rappresentavano più motivo di ribellione. Fa quasi ridere pensare che c’è stato un tempo in cui avere i capelli lunghi aveva un significato politico. Per tutti noi che siamo cresciuti negli anni 70 David Crosby era il nostro riferimento. A differenza dei tanti eroi che avevamo, da Keith Richards a Bob Dylan, che ci apparivano lontanissimi nella loro maestà “regale”, Croz, come lo chiamavano gli amici, era uno di noi. Era l’emblema di quel sogno hippie che noi ragazzi italiani cercavamo con anni di ritardo, anche se Woodstock era successo solo tre, quattro anni prima e già ci appariva lontanissima. Ci chiudevamo in casa per un intero weekend ad ascoltare il triplo vinile di quell’evento con qualche spinello, cercando di rivivere qualcosa che appariva irrimediabilmente irraggiungibile. Di tutti, David Crosby era l’immagine: solare, sorridente, accattivante, carismatica, incoraggiante.



David Crosby significava l’utopia più a portata di mano, uno che aveva avuto l’ardire di scrivere una canzone come Triad, oggi che stilisti, manager e influencer da quattro soldi disegnano per gli sprovveduti “le famiglie alternative”, una canzone che parlava della possibilità di vivere un rapporto di coppia aperta: “Cosa possiamo fare ora che entrambi ti amiamo, vi amo anch’io, non vedo davvero perché non possiamo andare avanti in tre”. Perché lui era nato per spezzare e distruggere le regole: “Il fantasma di vostra madre è alle vostre spalle la sua faccia come il ghiaccio, un po’ più fredda che vi dice non potete farlo, rompereste tutte le regole che avete imparato a scuola”. Già, perché quello che desideravamo a sedici anni era rompere tutte quelle regole che opprimevano il nostro desiderio di libertà, di felicità, di bellezza.



Fa sorridere allora che sia stato proprio uno come lui a distruggere per sempre la meraviglia di quel super gruppo che aveva contribuito a fondare, CSN e poi anche CSN&Y, quando si era permesso di criticare gli amici di sempre Graham Nash e Neil Young per aver divorziato dalle mogli di decenni per mettersi con donne più giovani: non si fa, aveva detto, la famiglia non si rompee. E loro lo avevano insultato e non gli avevano più parlato.

Solo le belle persone cambiano idea. David Crosby lo aveva capito sulla propria pelle. Lui che ci aveva fatto sognare giardini incantanti con il profumo di cannabis, era finito nel tunnel della dipendenza, crack e cocaina e poi anche la galera.



C’era stato un monito, una profezia che ci aveva gelato il sangue nelle vene. Peter Fonda, per il suo film manifesto della generazione hippie, Easy Rider, aveva scelto come suo co-protagonista un attore che era quasi il sosia di Crosby, Dennis Hopper. E ovviamente, a differenza del freddo Captain Trip-Fonda, Billy era il nostro preferito: divertente, sagace, sempre “fumato”. E poi nel finale quel colpo di fucile da parte di un burino razzista che aveva ucciso prima lui poi l’amico. Era la profezia che il sogno hippie era destinato a morire. Nessun sogno sopravvive alla luce dell’alba, neanche il più bello. Eppure ci aveva creduto: “L’ora più scura arriva prima dell’alba”. Quell’alba non è mai arrivata. Ma lui ci credeva e ci incitava: “Devi parlare contro la follia devi dire quello che pensi se ne hai il coraggio, ma no, non cercare di farti eleggere, se lo fai, faresti meglio a tagliarti i capelli”. Ancora quel simbolo: i capelli, bandiera freak della nazione alternativa.

Crosby che al festival di Monterey nel 1967, il primo grande raduno rock, aveva fatto incazzare il suo compagno nei Byrds, Roger McGuinn, perché invece di cantare aveva fatto un lungo monologo accusando il sistema e l’apparato politico di aver ucciso JFK.

Ma David Crosby non era solo questo. Era un musicista incredibile. Jazz e musica folk nella sua testa erano un tutt’uno. Costruiva melodie ardite tanto che Miles Davis incise una sua canzone, Guinnevere. Accordava la chitarra in tonalità impossibili ed era dotato di una voce meravigliosa, armonia cosmica che frantumava i cristalli, capace di melodie struggenti che foravano il cuore. Le sue canzoni mettevano in diretto contatto con l’universo, la magia e quel Dio misterioso che aveva sempre cercato. Perché sì, era un viaggiatore spirituale. La morte della sua compagna, Christine, in un incidente automobilistico lo aveva segnato per sempre e da allora la sua missione era stata dialogare con quel “capitano oscuro” perché mostrasse il suo volto: “Capitano da cosa ci stiamo nascondendo? Ti sei nascosto fin dall’inizio (…) Chi guida questa nave sognando attraverso i mari girando e cercando? Parlarmi, ho bisogno di vedere la tua faccia, Capitano oscuro in uno spazio oscuro”.

Da sotto i suoi baffi uscivano proverbi zen di saggezza immensa: “Pensavo di aver visto qualcuno che sembrava conoscere la verità, mi sbagliavo, era solo un bambino che rideva al sole”. E ancora: “La vita è bella anche con i suoi alti e bassi”; “Perché la vita è dolce amara e i giorni nuvolosi quando ho bisogno del calore del sole?”. La realtà tutta insieme è troppo dura e allora ti nascondevi nell’unica realtà accettabile: “Nei miei sogni posso vedere un amore che esiste davvero”.

Così hai deciso una volta per tutte che era ora di andare a vedere il volto di questo capitano oscuro. Avevi superato la droga, un trapianto del fegato, il tradimento del mondo della musica che aveva osato eliminare le grandi menti come le tue per proporre solo spazzatura musicale. Ma proprio poco prima di morire avevi detto che volevi ancora fare musica. “Music is love” era il tuo motto, perché la musica è espressione del nostro esistere. Senza, non possiamo andare avanti. Ti sei addormentato. Hai rivisto in sequenza una vita magnifica, da quando da ragazzo con alcuni tuoi amici mettesti in piedi il più formidabile gruppo rock americano, unico rivale dei Beatles, i Byrds, che volavano a otto miglia di altezza. Hai rivisto Woodstock e quel milione di ragazzi che sognavano un altro mondo. Gli stadi, il successo inebriante, le lunghe cavalcate elettriche devastanti eppure sempre piene di amore con i tuoi amici Graham Nash, Stephen Stills e Neil Young. La caduta, il male e la rinascita. E le canzoni: “Dove sarò quando tornerò a casa? Chi vedrò quando sarò tutto solo? E cosa farò? Dimmelo”. Adesso sei a casa, Croz. Noi ci culliamo con il sogno di quelle isole verso le quali navigavi con il tuo veliero nelle lunghe notti nell’oceano, cercando una luce che potesse guidarti: “Non c’è niente altro che vedere centomila isole gettate come gioielli su mare, per me e per te”. In fondo, hai sempre scherzato, anche pochi giorni fa, postando su Twitter una frase così: “Ho sentito dire che il Paradiso è un posto sopravvalutato… pieno di nuvole”. I capelli comunque non li hai mai tagliati.

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